La questione dei “costi della politica” comincia forse ad uscire dai circoli ristretti degli specialisti, degli “esperti”: quei “professori” che spesso lavorano non tanto per risolvere i problemi quanto per meglio occultarli e impedire che se ne prenda visione e coscienza.
Eugenio Bruno, sul Sole 24 Ore pubblica un articolo che merita di essere conservato. I partiti italiani (diciannove, quelli che secondo i dati pubblicati dalla Gazzetta Ufficiale beneficiano del “rimborso elettorale”) alla fine di ogni competizione elettorale, intascano fiumi di euro: dai 28 e passa milioni dei DS ai 40 e più di Forza Italia, fino ai quasi 312 dell’Unione Valdotaine e ai poco più di 200 dei Repubblicani europei. Ma il “colpaccio” l’ha fatto Carlo Fatuzzo, fondatore del Partito dei Pensionati. Nella campagna per le ultime elezioni europee, come ci ricordano sul Corriere della Sera del 14 novembre Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, il Partito dei Pensionati ha “investito” degli “spiccioli”: 16.435 euro. Il rimborso elettorale gliene ha garantiti quasi tre milioni, un incremento del 180 per cento.
Il paradosso è che nonostante tutto questo denaro, i partiti battono ugualmente cassa, e i loro bilanci sono tutti in “rosso”: complessivamente dichiarano un “buco” di circa 350 milioni. Per sintetizzare l’accurata inchiesta condotta del Sole 24 Ore, «in media il sistema spende una volta e mezza in più di quello che incassa con il rimborso pubblico. Cresce il debito in 14 casi su 10: oltre due terzi pesa su Quercia e Forza Italia». Il quotidiano della Confindustria si concede un’amara ironia: «Dinanzi a tali cifre sembra quasi un miracolo che, debiti a parte, le finanze dei partiti di casa nostra riescano ancora a reggere».
Reggano o meno, il problema del “costo della politica” c’è tutto. L’avevano sollevato esattamente un anno fa due esponenti di primo piano dei DS, Cesare Salvi e Massimo Villone, in un libro, Il costo della politica appunto, che mette a nudo e rivela una realtà sconosciuta, che va al di là dell’immaginabile e che lascia spesso sconcertati: «Il quadro che emerge dalla nostra ricercaҗ, scrivono Salvi e Villone con ammirevole franchezza, e puntando il dito anche contro la loro “parte”, «è peggiore di quanto potesse apparire a prima vista. La questione dei costi impropri della politica si rivela come una grande questione democratica. Serve un’operazione verità, che tolga il velo dei silenzi, degli opportunismi, dei consociativismi, dei sotterfugi e dei cavilli legislativi e regolamentari…».
Salvi queste cose è venute a dircele di persona, indossando i panni del congressista mescolato tra i congressisti, a Padova, e partecipando ai lavori della commissione su “Informazione, legalità, costi della politica, riforma del sistema radiotelevisivo”. E a una precisa domanda di chi scrive, se avesse mai avuto la possibilità di parlare del suo libro, del risultato della sua inchiesta in una qualunque trasmissione televisiva, la risposta è stata secca (e sconcertante): «No, non sono stato invitato da nessuna trasmissione».
Salvi e Villone non si scagliano contro i partiti in quanto tali, nulla concedono a una deriva qualunquista secondo la quale chi fa politica è sostanzialmente un mangiapane a tradimento, e lo fa perché di meglio non sa e non vuole fare. «Senza i partiti non c’è democrazia», puntualizzano. «Ma proprio questo ci allarma: partiti deboli, snaturati, personalizzati, balcanizzati, territorializzati per fare carriera, comitati elettorali intorno a leader e leaderini rendono debole la democrazia. E’ emblematico che oggi gli apparati dei partiti contino su poche centinaia di persone, mentre oltre quattrocentomila vivono di politica o vicini ad essa».
È un tasto dolente. Nel già citato articolo pubblicato sul Corriere della Sera, Rizzo e Stella, intingono le loro penne nel curaro: «I rimborsi», osservano, «fatta eccezione per i radicali, sono sempre spropositati rispetto alle somme realmente spese. E dimostrano in maniera abbagliante come i partiti, negli ultimi anni, abbiano davvero esagerato. Il referendum, del 18 aprile 1993 era stato chiarissimo: il 90,3 per cento delle persone voleva abolire il finanziamento pubblico dei partiti…Ve lo ricordate perché nacquero i rimborsi elettorali? Per aggirare, senza dare nell’occhio, quel referendum. E sulle prime, l’obolo imposto era contenuto: 800 lire per ogni cittadino residente e per ognuna delle due Camere. Erano troppo pochi? Può darsi. Certo è che, via via che l’ondata del biennio ’92-’93 si quietava nella risacca, i partiti si sono ripresi tutto, diventando sempre più ingordi. Fino a divorare, oggi, nelle sole elezioni politiche, dieci volte più di dieci anni fa…».
Ed è un bel paradosso: ognuno di noi, volente o nolente, non solo finanzia il partito che più soddisfa le sue idealità e interessi, ma una parte del suo “obolo” finisce nelle casse anche dei partiti avversari. I partiti succhiano una quantità di denaro pubblico da far paura; e nonostante ciò sono ugualmente in passivo. E nel paradosso, si verificano episodi che fanno masticare amaro: non è solo il Partito Pensionati ad aver ricevuto un rimborso per le elezioni europee 76 volte superiore a quanto aveva speso. C’è la Fiamma Tricolore che ha incassato 81 volte più di quanto ha speso; Rifondazione Comunista 13 volte di più; i Comunisti italiani di Oliviero Diliberto 12 volte di più, e via così. Se c’è qualcuno che sa spiegare perché alle elezioni europee i partiti complessivamente hanno dichiarato spese per 88 milioni di euro, e se ne sono visti rimborsare 249, non esiti a spiegarcelo. Noi non abbiamo una risposta a questo interrogativo.
C’è stata una furibonda levata di scudi da parte della signora Mastella presidente della regione Campania, quando Emma Bonino ha osato sollevare la questione di una incongrua e costosissima “diplomazia” della regione che in massa ha partecipato al Columbus Day a New York. Ad averne capacità e possibilità bisognerebbe davvero raccogliere informazioni, dati e cifre, e ne verrebbe fuori un esplosivo libro bianco (o nero, o rosso, per la vergogna). Ogni regione ha aperto mini-ambasciate a Bruxelles (unica eccezione: la Basilicata), e a Roma. Il Friuli Venezia Giulia ha acquistato a Bruxelles un palazzotto per due milioni di euro; l’Abruzzo mille metri quadrati in una delle strade più eleganti (un milione e mezzo di euro); bisogna dare atto a Ottaviano Del Turco: uno dei suoi primi atti è stata di venderla e destinare il ricavato a una politica europea attiva. La regione siciliana ha in affitto un “appartamentino” di 540 metri quadrati, con una delegazione di undici persone e uno stanziamento per la bisogna di circa un milione di euro l’anno. Sempre la regione Sicilia ha due “rappresentanze” a Parigi e a Tunisi.
La regione Lombardia ha disseminato nel mondo 24 uffici “suoi”: da L’Avana a Pechino a Shangai.
Fanno anche i furbi: non ci sono voci specifiche nei bilanci regionali, tutte le spese degli uffici “romani”, per esempio, sono “spalmate” in capitoli diversi. Ad ogni modo la regione Campania ha “distaccati” sedici dipendenti: quattro sono dirigenti; undici sono funzionari con qualifica superiore. Ne resta uno: impiegato semplice.
È solo una goccia nell’oceano dei costi (e degli sperperi) in nome del decentramento regionale e del federalismo. Più che “costo della democrazia”, si dovrebbe più propriamente parlare di “democrazia inflazionata”.
Gualtiero Vecellio
(da Notizie radicali, 23 novembre 2006)