Firenze – Sono consapevole che quanto scrivo è impopolare, e che ben altro andrà di moda. Ma le interviste rilasciate in questi giorni dal neoeletto rappresentante del maggior sindacato dei magistrati e giudice di Cassazione Piercamillo Davigo, mi hanno sinceramente spaventato. Leggo frasi come “i politici rubano di più e non si vergognano”, in materia di appalti “non esistono innocenti, esistono solo colpevoli da scoprire”, “non ci sono troppi prigionieri; ci sono troppe poche prigioni” (Corriere della Sera di oggi 22/04/2016), “la presunzione d’innocenza è un fatto interno al processo” (Fatto quotidiano del 20 aprile scorso).
Ognuno ha vissuto esperienze ed episodi che lo hanno profondamente segnato nel modo di vedere il mondo. Per me, una delle esperienze più brutte e influenti è stata alle scuole elementari, quando una maestra entrò nella mia classe, interrompendo le lezioni, e mi strapazzò davanti a tutti per aver rubato un quaderno ad una sua alunna. Di fronte a quella voce alterata dalla rabbia e dall'indignazione rimasi pietrificato, provando imbarazzo e vergogna pur non avendo fatto nulla di tutto ciò. Ne seguirono giorni di pianti e autentica disperazione – avevo solo otto anni – le prese in giro dei miei compagni, i rimproveri delle mie maestre, lo stigma di essere considerato un ladro. A nulla servì che la finta vittima, qualche giorno dopo, avesse ammesso di essersi inventata tutto per nascondere alla maestra di non aver fatto i compiti. Per mesi rimasi un ladro agli occhi di molti.
Da allora, la presunzione di innocenza, il diritto di difesa, e il disgusto per ogni forma di trattamento degradante come la gogna, sono diventati parte di me. Non un fatto meramente processuale, come vorrebbe Davigo, ma principi alla base del vivere civile. Crescendo, ho approfondito questi principi, li ho conosciuti nella loro dimensione storica, civile e giuridica, ed ho imparato che sono il frutto di secoli di evoluzione verso ciò che chiamiamo democrazia liberale e stato di diritto.
Quando leggo che un giudice ha condannato lo Stato norvegese per violazione dei diritti umani di Anders Breivik, neonazista incarcerato per aver ammazzato 77 persone sull'isola di Utoya, perché posto in isolamento per anni in un trilocale con tv e palestra, non posso non provare ammirazione per quella civiltà. Una società, prima ancora che un sistema giudiziario, dove diritto e vendetta, anche in casi estremi come questo, sono ambiti completamente distinti, dove rabbia e indignazione sono sentimenti che la giustizia e la società tutta giustamente ignora di fronte alla violazione dei diritti umani di tutti gli esseri umani, nessuno escluso.
In Italia, dove molti di questi principi di civiltà sono nati, cresciuti e esportati, oggi ne facciamo apertamente carta straccia. Si legifera in materia penale sull'onda di indignazione e sul senso (umanamente legittimo) di vendetta dei parenti e amici delle vittime. Soprattutto, ci sono giornalisti, forze politiche e magistrati che hanno costruito la loro fortuna sulla negazione di questi principi. Ed in periodi di crisi economica e civile, in un Paese dove l'educazione civica è già di per sé poco frequentata, questi elementari principi a garanzia dell'individuo sono messi a dura prova di fronte all'inarrestabile avanzare della retorica della forca.
Il fatto che questa retorica prenda di mira i cattivissimi “politici” – piuttosto che altre categorie come “immigrati”, i “Rom”, i “musulmani”, i “banchieri” – non la rende meno indigeribile. È anzi ancora più preoccupante perché mina la democrazia rappresentativa, laddove pretende che persino la sola notizia di un'indagine – magari da parte di un magistrato iscritto proprio all'Anm e quindi presumibilmente in linea con le idee del suo massimo rappresentante sindacale – debba determinare sempre e comunque la rimozione dalla carica pubblica di un politico democraticamente eletto. Salvo poi scoprire, su un trafiletto pubblicato in trentesima pagina di un quotidiano locale, che quell'inchiesta è stata archiviata o ha portato all'assoluzione di tutti gli imputati perché il fatto non sussiste o non costituisce reato, e che nel frattempo il magistrato responsabile è stato eletto Sindaco o parlamentare.
Insomma, i politici forse sono davvero tutti corrotti e non si vergognano più di rubare, come sostiene l'Anm, ma i magistrati evidentemente non si vergognano più di fare apertamente politica. E che politica!
Pietro Yates Moretti, vicepresidente Aduc