Che differenza c'è tra un film commerciale e un film di valore artistico?
Se fosse possibile rispondere in due parole, direi: un film commerciale altera e semplifica la realtà per gratificarci, per divertirci, per farci piangere o magari per ammaestrarci. L'arte, invece, si sa, va alla ricerca della verità della vita, nella sua complessità e ambiguità. E cerca in prima luogo quella verità che più le compete: quella dei sentimenti e delle emozioni.
Può capitare che in un film di impianto prevalentemente commerciale, si ritrovino dei momenti di valore artistico.
Prendiamo ad esempio il film: Mister Chocolat di Roschdy Zem.
Racconta la storia di una coppia di clown che furoreggiò in Francia agli inizi del Novecento. L'aspetto più originale del loro spettacolo era che la coppia era formata da un clown di colore, nero; e da un bianco.
La dinamica degli sketch prevedeva che il bianco, grazie alla sua astuzia, prevalesse sul nero, tanto da riuscire a prenderlo regolarmente a calci nel sedere e a sottoporlo a varie vessazioni.
Il successo dei numeri, si desume dal film, era dovuto non soltanto all'abilità dei due artisti (in particolare del bianco, ideatore degli sketch), ma anche al razzismo e al sadismo degli spettatori, appartenenti per lo più alla buona società, che in quella rappresentazione trovavano una valvola di sfogo ai loro cattivi sentimenti.
Una tensione sadomasochistica intercorreva anche tra i due artisti, uno dei quali, il bianco, sarebbe stato segretamente attratto dal nero, nei modi di un omosessuale represso.
Il film racconta anche che il nero, grazie a una presa di coscienza civile, si sia poi rifiutato di incarnare sulla scena il ruolo dell'eterna vittima; che abbia tentato di conquistare un'autonomia e una dignità artistica interpretando a teatro, a Parigi, il ruolo dell'Otello; ma che il pubblico, malgrado il suo talento, lo abbia fischiato per le stesse ragioni per le quali, come clown, lo applaudiva.
Non tutto il racconto è ugualmente convincente. Quelle platee in cui tutti gli spettatori ridono in modo analogo; o, durante la rappresentazione dell'Otello, sono tutti incantati dalla performance del protagonista per poi, al momento dei ringraziamenti, scatenare la loro indignazione: hanno reazioni così omologate e spiegate, da dare un senso di artificio.
La presa di coscienza del nero – la sua decisione di ribellarsi al proprio ruolo – è troppo improvvisamente lucida per risultare persuasiva. E la riconciliazione finale tra i due artisti, quando il nero è in punto di morte, è dolciastra, sa di sentimentalismo.
Ma la verità del racconto passa attraverso altri momenti, nei quali le ragioni e i torti non sono così nettamente separati e riconoscibili: quando, ad esempio, il nero, ubriacato dal successo che la società gli tributa, si ammanta di una vanità ottusa; o quando si sfoga della frustrazione che comunque avverte per il ruolo che gli ha dato quel successo, trattando con disprezzo una sua amante.
E per quanto riguarda il clown bianco, la durezza, la crudeltà, con cui tratta anche fuori della scena il suo partner artistico, si intuisce dovuta alla sofferenza di un amore represso ma profondo.
I due protagonisti sono interpretati molto bene da Omar Sy e da James Thierrée, nipote di Charlie Chaplin.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 16 aprile 2016
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