Vi lascio poesie vedove, poesie nere.
Abbandonate lodi
dimentiche d’allori;
scarti di aspirazioni,
inutili idealismi,
rifugi rumorosi
di anni informi,
bicefale espressioni
di una pena atroce.
Le lascio sui riccioli
insanguinati del giacinto:
soffocate da una voce che tace
ogni loquace silenzio, forse…
L’idiosincrasia che mi violenta,
ad udirne la cacofonia,
imbavaglia gli astri e Venere spicca nuda
animata dal piripì d’un flauto.
Sbilenche le anche si annodano
inarcando schiene bianche
un passo dopo l’altro
e ogni collusione sfocia in ambaradan di trombe
senza gola; sarmentose lingue di sterpi;
cortometraggi di corpi
stretti in trepido abbraccio.
Lascio preghiere come pietre di un sentiero
raccolte in un amaro bicchiere;
preghiere come nuvole nere al di là del sentiero.
Melomani, fuggite le mie rime:
voi che sognate il sole del suono,
qui solo solecismi vi accolgono.
Occorre raschiare specchi di ottone
per la corretta pronuncia dei miei versi…
Ascoltate: non tento il canto delle sirene – schhht! –
ma l’irresistibile gracchiare d’una cornacchia
che ripone rara grazia
nell’arrochimento delle note.
Diverrete le vostre metafore
tanto quanto io sono la mia!
Può addolcire la morte un fascio di rose?
L’epitaffio è meno grigio con ghirlande di potentilla?
Se qualcuno estrapola un qualche germoglio
dal mio rumore; se una qualsiasi musa sfogliò
pratoline al ritmo triste di un amore qualsiasi,
se adesso lo sta facendo e se, inoltre, lo fa spesso
allora le mie stesse lacrime avranno un compenso.
Forse, allora, il mio epitaffio sarà inghirlandato
con troppi, fragili fiori di potentilla.
Allora, forse, l’amaro calice della morte sarà dolce.
Dopotutto, malgrado non abbia alcun pregio,
la bellezza,
resta una delle cose più belle che la vita ci ha offerto.
Marco Amore