Firenze – Il Consiglio di Stato ha “sospeso” il proprio parere sul decreto ministeriale sul canone Rai, di fatto restituendolo al mittente e indicando le modifiche da apportare.
Il Consiglio di Stato, in buona sostanza, accusa il Ministero dello Sviluppo economico di aver abbandonato i cittadini, e di continuare a farlo: non si può limitare ad emanare disposizioni, ma deve garantirne la diffusione e conoscenza adeguata, soprattutto se al cittadino si chiedono autocertificazioni alle quali è ricollegata una responsabilità penale.
Le critiche più rilevanti, che costituiscono il fil rouge dell'intero provvedimento, riguardano l'inadeguatezza delle informazioni rese ai cittadini, la mancanza di chiarezza e il linguaggio troppo complesso utilizzato nell'intero decreto, difficilmente comprensibile dal cittadino non addetto ai lavori, che sulla base di quel decreto deve fare autocertificazioni che possono avere conseguenze anche di rilievo penale.
Vediamo ora queste critiche:
- l'inadeguatezza della pubblicità e dell'informazione resa al contribuente sul canone in bolletta, sull'autocertificazione richiesta ai cittadini e sui rimborsi per i canoni pagati erroneamente. Il decreto dovrà quindi indicare le modalità di informazione ai contribuenti «al fine di agevolare la conoscenza di tali adempimenti da parte della cittadinanza e, conseguentemente, una più efficace applicazione delle norme»;
- manca una definizione esatta di cosa sia un apparecchio televisivo. Il decreto dovrà specificare che il canone/imposta Rai non deve essere pagato per apparecchi quali tablet, smartphone, pc, ecc. (ad oggi questa informazione è contenuta soltanto in una circolare ministeriale del 2012). Il contribuente insomma deve avere vita più facile e norme più chiare, e non deve impazzire in un ginepraio di atti e circolari;
- serve maggior chiarezza sulle categorie di contribuenti tenuti al pagamento. Il riferimento è alla “famiglia anagrafica”, definizione di non facile comprensione per i non addetti al settore, che dovrà essere resa in forma più chiara e facilmente intuibile;
- l'intero decreto, poi, «tenendo conto dell’ampia platea di utenti cui [...] si rivolg[e]» dovrà parlare italiano, e non legalese: dovrà essere comprensibile per chiunque lo legga e non dovrà essere necessario andare da un avvocato per capire cosa c'e' scritto;
- altro rilievo critico mosso dal Consiglio di Stato riguarda il fatto che l'operazione canone in bolletta comporta inevitabilmente lo scambio di dati personali dei contribuenti e che in nessun punto del decreto si garantisce esplicitamente che tale scambio avverrà nel rispetto della normativa sulla privacy.
Il parere, ancora, bacchetta il Ministero per il ritardo nell'emanazione del provvedimento e per il mancato coinvolgimento del Ministro dell’economia e delle finanze, che non può limitarsi a rilasciare un “nulla osta” ma dovrà assumersene formalmente la responsabilità.
Tutte contestazioni che abbiamo già rivolto al Governo dall'emanazione della legge di stabilità e che ad oggi sono rimaste pressochè inascoltate, con la vaga rassicurazione che “il decreto chiarirà tutto”. Così evidentemente non è, e si torna ai blocchi di partenza.
Cosa accadrà ora? Siamo a metà aprile, si riparte daccapo e il momento del primo addebito in bolletta si avvicina. Fino all'emanazione del provvedimento nessuno può far nulla, gli enti non possono scambiarsi i dati dei contribuenti, e le società elettriche non possono addebitare il canone in bolletta. Il boomerang sta tornando indietro e il nostro timore – se il Governo non deciderà di fare un passo indietro e di rinviare l'entrata in vigore delle nuove norme all'anno prossimo (prendendosi il necessario tempo per coordinare una macchina così complessa) – è che il boomerang torni metaforicamente in fronte ai cittadini, che ne pagheranno (non metaforicamente) le spese.
Emmanuela Bertucci, legale Aduc