Uno degli errori più frequenti a cui è soggetto un narratore, si verifica quando altera lo sviluppo naturale dei fatti e dei personaggi che racconta, per dimostrare una tesi.
Così il racconto è almeno in parte rovinato, senza che la tesi, giusta o sbagliata che sia, risulti persuasiva. Che in questo difetto possano incorrere anche i migliori, lo dimostrano due film diretti da due bravi registi.
Un bacio di Ivan Cotroneo intende dimostrare che l'omofobia può uccidere. È una tesi, si sa, purtroppo giusta. Per dimostrarla, Cotroneo ci racconta di un ragazzo gay, allegro e gentile, giusto un poco supponente, che al suo ingresso in una nuova scuola superiore, finisce vittima del bullismo omofobico. Ma non ha un carattere remissivo. All'interno della classe, si crea una specie di “nicchia ecologica”, formata da altri due studenti, un ragazzo e una ragazza, anche loro, per diverse ragioni, emarginati dal resto del gruppo; che reagiscono alla persecuzione colpo su colpo.
Il tono del film, malgrado la gravità dell'argomento che affronta, resterebbe leggero, se proprio all'interno del trio non si sviluppasse una storia d'amore destinata a degenerare nel dramma e nella tragedia. Il ragazzo omosessuale si innamora dell'altro ragazzo, introverso e complessato, che oscuramente ricambia la sua attrazione, la quale però risulta inaccettabile alla sua coscienza, tanto che alla fine mette mano alla pistola. Ed è qui, in particolare, che si percepisce il punto debole, l'anello mancante del racconto. Per rendere credibile uno sbocco di violenza così estremo, sarebbe stato necessario uno scavo nella psicologia del giovane omofobo, che manca quasi del tutto. La sua figura, a differenza degli altri due protagonisti, descritti con sottigliezza, è piuttosto generica e sbiadita. Di questa lacuna, l'autore deve essersi accorto perché, per motivare il gesto insano del suo personaggio, è ricorso all'escamotage, posticcio e inefficace, del fantasma del fratello morto con cui il ragazzo dialoga e che, nella sua immaginazione, lo addita alla vergogna.
La tesi del film La comune, del danese Thomas Vintenberg, è pessimistica: certi ideali comunitari degli anni Settanta, come la rinuncia alla proprietà privata e il libero amore, sono destinati a infrangersi contro incomprimibili istinti dell'uomo, quali l'egoismo e la possessività.
Si racconta di una coppia di coniugi di età matura, che decidono di condividere il grande appartamento che l'uomo ha ereditato, con un gruppo di amici, devolvendo la proprietà alla “comune” che così si è formata.
Avviene che l'uomo, che insegna all'università, si innamora di una sua studentessa. E, facendo valere la propria autorità di proprietario, la inserisce a forza nella “comune”. Ha la bella idea di collocare la nuova camera da letto della moglie accanto a quella in cui trascorre le notti con l'amante, separate, le due camere, da una sottile parete.
La moglie, che non riceve più visite dal marito e che tenta di andare d'accordo con la sua amante, precipita nella depressione, senza che l'uomo abbia alcun desiderio di curarsi di lei.
Ora: può essere che un uomo che professa gli ideali comunitari, si dimostri di un egoismo così ottuso e tenace?
Forse sì. Certo, però, nel film la contraddizione fra comportamento e ideali è così netta, da risultare schematica e, appunto, dimostrativa.
Va detto, però, che l'affresco di vita di gruppo è dipinto con freschezza, con umorismo e, per varie notazioni, con senso di verità.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 9 aprile 2016
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