Azeza Khouribech
Storie di donne
Donne migranti
Effigi, 2016, pp. 128, € 15,00
Azeza Khouribech è arrivata in Italia da adolescente, 13 anni fa, ed ora è laureata in Scienze della Comunicazione. Il percorso non è stato sempre facile, la mancata conoscenza della nostra lingua l’ha penalizzata fin dal primo giorno di scuola, l’uso del velo le ha fatto sperimentare la chiusura e la diffidenza: «I pregiudizi delle persone che mi giudicano prima di conoscermi: vengo allontanata solo perché porto il velo, c’è chi ha paura di me come se io fossi qualcosa di pericoloso, c’è addirittura chi cambia posto quando gli siedo accanto. Questo succede anche perché c’è un po’ di ignoranza». Per questo suo vissuto, per la sua esperienza e crescita culturale, le è stato chiesto di raccogliere testimonianze dirette, intervistando donne straniere arrivate nel nostro Paese dalle più lontane parti del mondo, con il duplice scopo di «documentare i passi dell’immigrazione femminile e testimoniare come l’impegno e la determinazione abbiano consentito ad Azeza di raggiungere un ottimo livello di preparazione».
Così Amira, Nour, Francesca, Carmen, Monica, Leila, Zynab, Amal, Alina, Marta, Hayat, Fusseina, Fatima, Khadija, Liliana. Alejandra, Aisha, Binnie, Elisabeth, Serin Dalila, hanno accettato di parlare di sé, e Azeza riporta le loro parole senza interventi né modifiche.
Ne emerge la speranza che ciascuna di loro ha nutrito nei confronti del nostro Paese, presto annebbiata dalle difficoltà concrete incontrate, di carattere burocratico, legislativo, occupazionale, e soprattutto sociale, relativo alla accoglienza. Chiusura e pregiudizio, più frequenti nei paesi più piccoli e isolati, comunque sono diffusi dappertutto: «Anche se vivo in una città grande ci sono persone che hanno i cervelli così piccoli che non accetterebbero la diversità degli altri» dice Serin turca; il problema della lingua complica le relazioni; sono peggiorate e diminuite le opportunità lavorative come conseguenza della crisi economica e aumentato lo sfruttamento; si sperimenta violenza psicologica e fisica in casi di matrimoni misti; prevale l’isolamento sociale e culturale.
C’è chi pensa di tornare in patria: «Nonostante l’ottimismo che nutro in un futuro migliore per tutti, ho deciso di tornare a casa mia» dice Leila, marocchina. «Perché non voglio più vivere nella paura di dover sempre subire e non voglio odiare o portare rancore per nessuno».
C’è chi vorrebbe tornare ma non può perché trattenuta dai figli nati in terra italiana: «Mi sento molto sola e isolata… L’unico motivo che mi trattiene qui sono i miei figli che studiano e appena finiscono torno con mio marito a casa nostra, in Algeria» dice Zynab. Chi non può perché il suo paese vive una situazione instabile. Chi è spronata a farlo perché ora nel suo paese dì origine si sta meglio.
Anche se si sono inserite nel nostro tessuto sociale, spesso vivono una lacerazione interiore: «mi trovo divisa tra l’Italia (casa mia) dove sono cresciuta, e il Marocco (la patria) dove sono nata» dice Amira, 19 anni.
Sono arrivate con altre immagini del nostro paese: «Quando sono arrivata in Italia mi aspettavo qualcosa di più a livello umano, politico e sociale» dice Carmen, sudamericana. «Mi rendo conto che nel mio paese sul problema della violenza di genere abbiamo fatto dei passi importanti e che qui in Italia si fa fatica».
Non ne esce bene l’Italia da questa lettura di donne migranti, donne coraggiose che hanno saputo affrontare ostacoli di ogni genere. La raccolta di testimonianze di Azeza fa riflettere sul cammino da completare verso una accoglienza vera, non di facciata, che si basi soprattutto sulla comunicazione, perché solo conoscendoci reciprocamente si possono abbattere le barriere del pregiudizio che sta alla base di ogni forma di razzismo. I tempi che stiamo vivendo rendono urgenti la comunicazione e la conoscenza.
Marisa Cecchetti