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Franco Patruno. La povertà del Golgota è la regalità (Pasqua, 2004)
26 Marzo 2016
 

Se l’apostolo Paolo si ricorda i due atteggiamenti dello scandalo e della follia, è per far memoria della fede come abbandono alle Promesse. Scandalo perché la morte appesa al legno è maledetta da Dio; follia perché esalta un Dio “debole”; che perdona, che non si vendica né rivendica il torto subito.

 

C’è una meraviglia che invita la volontà a capire e, senza paradosso, si lascia stupire da ciò che vede. Il vedere, in questo caso non è il mero percepire tangibile della vista, ma un guardare che s’approssima all’intus legere, un leggere oltre la consuetudine e le apparenze. L’abitudine all’immagine del Crocifisso può disattendere l’attenzione adorante. Se l’apostolo Paolo ci ricorda i due atteggiamenti dello scandalo e della follia, è per far memoria della fede come abbandono alle Promesse. Scandalo perché la morte appesa al legno è maledetta da Dio; follia perché esalta un Dio debole, che perdona, che non si vendica né rivendica il torto subito. Tale povertà, considerata inerzia e destino dei vinti della e dalla storia, acquista contorni ironici mirando la scritta sul palo: una regalità degli sconfitti. Ma è quello scandalo e quella follia che l’Appeso alla croce attira a sé, senza distinzione o preferenza di persone. Anche chi, non sapendo, s’è fatto voce estrema dell’ora del Tentatore (“Scendi dalla croce, e noi ti crederemo!”), è assunto dall’assurdità di questo abbraccio dilatato oltre i tempi e gli spazi. Se c’è consapevolezza di un’avversione nel condurre il condannato alla cima del Golgota, dall’alto di uno sguardo che non patisce solo la tragica immediatezza di ciò che avviene, non è lamento ma grazia senza limiti la tenerezza del “perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Il male oscuro che dall’origine fa da velo alla coscienza esplicita delle profondità del peccato, s’esprime anche in questa scena solo apparentemente quotidiana: un uomo tra i tanti che s’è illuso d’essere Figlio di Dio.

Chi pensa che questi atteggiamenti siano storicizzabili solo all’interno di quel contesto storico, non potrà afferrare che pure Paolo, ricordando il suo passato di violento oppositore dei cristiani, dica, con un’affermazione a tal punto densa di significato teologico da interpellarci ogni volta che in essa c’imbattiamo, che il suo astio era perfettamente in buona fede. Quella Croce, allora, suppone la meraviglia dell’ospitalità. La libertà umana non è violata, perché protende verso un incontro: ma è la rivelazione che viene dall’alto che toglie il velo, che abilita ad una comunione che nessun merito umano avrebbe potuto acquisire. Si conosce perché si è conosciuti. Se ci si pensa, anche nei rapporti dialogici la fiducia accordata in anticipo dà la possibilità di ascolto dell’altro, perché non crea ostacoli con preventivi ed opachi sguardi. La similitudine ha una giustificazione: creati ad immagine e somiglianza di Dio – quindi del Padre, del Verbo e dello Spirito – siamo resi partecipi dell’infinito di quella relazione. Giovanni, ispirato, contempla le parole di Gesù: diventare una cosa sola come “uno” è il rapporto che lega il Figlio al Padre nello Spirito santo.

La nostra intelligenza non è annullata ai piedi della Croce: accettare il mistero, pur non essendo la semplice soluzione di un problema, è espressione di una rinnovata razionalità liberata. Certo, la tentazione miracolistica, il Crocifisso lo sapeva dal deserto, è la via più facile, perché ogni appariscente esibizione s’affida al “qui e ora” dell’esaltazione panica, della suggestione sensitiva o l’inclinazione, ricorrente in ogni costone dello gnosticismo esoterico. Ma non si dimentichi l’evento fondamentale: è nell’attimo nel quale il Cristo abbandona liberamente lo spirito al Padre, e pure effondendolo secondo alcuni esegeti, che avviene la trasformazione in tutta la sua pienezza. Non è una metamorfosi la Risurrezione, ma la nuova condizione del ritorno, l’assunzione definitiva di ogni frammento d’universo, la convocazione universale e la destinazione ultima di tutti i figli di Dio. E ciò avviene attraverso il Verbo fatto carne, che non ha tenuto gelosamente per sé la sua forma gloriosa di Figlio unico di Dio, ma ha accettato la condizione incarnata che conduce, per i percorsi di una storia non virtuale, non solo alla morte, ma a quella morte di Croce. L’esaltazione è subitanea, anche se sinfonicamente ritmata in giorni dalla sacra liturgia. E’ il suo destino, la vocazione propria già prefigurata dagli annunci, soprattutto dal Servo che, come pecora condotta al macello, diventa l’Agnello che toglie i peccati del mondo. Quell’Agnello che Giovanni contempla accanto all’eterno trono.

La povertà del Golgota è la regalità che meraviglia per il suo essere totalmente inedita, come dono che viene dall’alto. Ogni logica del do ut des viene sconfitta, perché incisa nel peccato d’origine. La Pasqua è scritta in quei giorni, nella ferialità di avvenimenti che, come testimoniano i discepoli che ritornano ad Emmaus, potrebbero lasciare i segni della sconfitta che si piega alla malinconia per ciò che non è stato. Rimane il silenzio di chi, compreso nell’abbraccio eterno, si ferma in muta ma gioiosa contemplazione.

 

Franco Patruno

(L'Osservatore Romano, 09/04/2004)


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