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Lidia Menapace. Patriarcato e femminismo
24 Marzo 2016
   

Sono solita dire da un po' che se il femminismo non cerca né trova altri punti di partenza, non può resistere alla recente, non ancora del tutto consolidata, vittoria del patriarcato; ma che ciò non blocca la crisi capitalistica, la quale anzi, con l'appoggio del “patriarcato gentile” va sempre più non già verso l'uscita dalla crisi, con una nuova gloriosa socialdemocrazia, detta pure “riformismo”, bensì a capofitto nella barbarie che ha il nome proprio di “guerra”.

Voglio cercare di spiegarmi bene: che cosa sia il patriarcato è noto e qui non ho da inventare nulla. Che il patriarcato stia vincendo si vede dall'ininterrotto e non risolutivo dominio della finanza in economia. Che la sua incipiente “vittoria” sia una sciagura, si vede dalle vicende greche; dalla perdita di significato della parola “classe”; dalla trasformazione del sindacato in corporazione (cioè dal “progresso” verso il Feudalesimo!), dall'emergere di una emancipazione ottusamente mimetica, che produce persino le ragazze “bulle”, nonché le ministre adoranti, come quelle del governo Renzi o le parlamentari come la Moretti che svolgono benissimo la parte di altoparlante del “capo”. E mi spiace molto di dover mettere in elenco pure la vicesegretaria nazionale del Pd, che è una donna intelligente, la quale non può non capire quel che fa.

Ci troviamo dunque in una fase -che non credo sarà lunga, ma non è nemmeno un attimo fuggente- di regresso e di caduta. Da qualche tempo, sia pure in modo apparentemente casuale emergenziale e non organizzato, né analizzato a dovere, si palesano alcune “maglie rotte” nella rete della barbarie del capitalismo in crisi strutturale globale e -credo- finale (crisi, non crollo).

Mentre ciò succede, sembra che ciò che viene chiamato “sinistra” non se ne accorga nemmeno, non ne abbia coscienza e provi a fare del riformismo, senza nemmeno riuscire, proprio nei paesi dove la socialdemocrazia europea fu più gloriosa e consolidata, a contenere le crescenti spinte razziste, guerrafondaie e neocolonialiste, cioè fascisteggianti.

Colloco qui il fenomeno che chiamo “patriarcato gentile”, cioè quello “di sinistra”, che usa persino a volte il linguaggio inclusivo, dice “ministra” o “sindaca”, che non dice più “porca Eva”, anzi persino avanza analisi sulla “democrazia imperfetta per le donne”.

Qui è il possibile aggancio nuovo. Prendo in considerazione una dichiarazione delle N.U. (da alcuni decenni si chiamano Nazioni Unite e non più ONU) fonte non sospetta di posizione preconcetta progressista, ma abbastanza attendibile, che suona: “Le donne sono ormai stabilmente la maggioranza della popolazione del pianeta e di ogni paese che lo compone e occupano ovunque gli strati più modesti”. Se volessi tradurre subito in politichese sinistrese direi: dunque noi donne siamo il nuovo proletariato mondiale o almeno la sua stabile maggioranza.

Mi limito ad osservare che se le donne sono ormai la stabile maggioranza della popolazione, “una democrazia imperfetta per le donne” è “una democrazia imperfetta” e basta. Toccherebbe a tutte e tutti rispondere correttamente al conseguente “che fare?” A destra si accetta sia pure di malavoglia e col contagocce di mollare un po' di potere (bisogna dire che socialmente la destra ne ha di più e il sacrificio è minore). Ma a “sinistra” il niente. Non sono disposta a considerare “sinistra” una cosa così. Ripartiamo in ogni circostanza col ricordare che noi siamo la maggioranza e che chi non lo riconosce, non può di conseguenza dichiararsi se non conservatore o addirittura reazionario. E avanti tutta!

 

Lidia Menapace


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