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Angelo Andreotti. Le viol
Elena Merendelli
Elena Merendelli 
21 Marzo 2016
 

Le viol

 

Come un ceppo divelto dal terreno, come un peso spinto a fatica oltre il punto di equilibrio, sul quale gira anche con leggerezza quasi fosse ancorato a un cardine, e poi con facilità si srotola nello spazio, liberando e sciogliendo, scaricando più in là l’oppressione di sé, lui adesso piomba di lato a lei.

Resta per il momento l’ansare rumoroso del suo respiro, la soddisfatta alienazione dell’amplesso, solitario e incompleto, la probabile impressione di un vuoto spalancato nello scarto del suo piacere grugnito e l’incolmabile distanza di quell’altra segregazione, chiusa dentro un silenzio soffocato.

Lei, finalmente lasciata a sé, certamente sconcertata per l’invocata eppure inattesa liberazione, stremata per troppa realtà, lei chiude le braccia a croce sul petto, come a coprire il seno, come a stringersi in un abbraccio, che almeno lei afferri se stessa e attenui la rovinosa caduta nell’abisso della vergogna, dell’impotente attesa del dopo. Ma il dopo non viene, né verrà, e resta invece un solo, vorace, insostituibile presente a contarle adesso i respiri, i battiti del cuore, e domani i passi, spiando e affiancando il senso del suo andare.

Libera di respirare fino al dolore per eccesso di libertà, prima avrebbe voluto percuotere quel corpo, affondare le unghie in quell’umida prepotenza, e adesso, adesso che lui si è staccato, che lo ha sentito scivolare dal suo ventre come una lama sfilata dalla carne, girata e rigirata dentro quella ferita, e poi tolta con attrito lento e fresco d’insulto, adesso lei vorrebbe anche abbracciarlo, vorrebbe anche solo un corpo, uno qualsiasi, finto o reale ma che sia un corpo, una presenza, anche quella di lui, così maledettamente concreta, da stringersela comunque addosso.

Vorrebbe, e lo guarda, come si guarda il carnefice di una fiducia, il boia di un sogno, l’assassino di una speranza, con le lacrime a scavare solchi indelebili sulle guance, con l’umiliante espressione di una servile rassegnazione. E gli occhi arrossati e lontani, imploranti qualcosa che non si può più chiedere, che non si potrà più ottenere, a implorare insomma pietà, pena, subito, anche qui, anche adesso, anche da lui. Qualcosa che attenui, che finga addirittura un’altra situazione, anche una sua accettazione.

E così lei osserva con la coda dell’occhio la supina sazietà di quel corpo, lo sguardo dilatato verso il soffitto, ancora l’ansante rilassarsi di chi nulla ha da temere, l’insostenibile violenza dell’indifferenza. Poi lei si gira sul lato opposto, a volgergli le spalle. Rannicchia le gambe, le stringe con le braccia portandole al petto.

Si chiude, ma il guscio è incrinato, è crepato dalle forti percosse del ricordo che di già affiora, fluttua nella sua mente: non vede, ma si vede vivere quel che ha vissuto. Anche prima era lo stesso, anche durante, anche mentre viveva il tempo del massacro quel tempo era già ricordo. Il primo di un’eternità.

Lo sguardo è sbarrato, il tremito è convulso, irrefrenabile. E vorrebbe ora avere la forza di emergere, ascoltare quel vento che fuori scuote ogni cosa, lasciarsi andare allo scorrere degli attimi che però sembrano intimoriti, e con cautela procedono quasi insignificanti, senza un futuro da rincorrere. Il presente, solo il presente pare ora e per sempre ospitarla. E così lei sente l’angoscia di un evento ripetibile all’infinito nella sua mente, senza tregua, senza tempo, senza perdono, senza ritorno.

E allora immagina un’altra realtà, ma nessun’altra realtà è più possibile, non ora, non adesso che il ventre duole, le braccia, la pelle, il corpo intero, di un dolore incerto, infido, diffuso, che lei pensa infilato ormai per sempre nel suo tempo, imbevendo di sé ogni istante da qui in avanti, ogni pausa, ogni sguardo.

Sarà così. Per sempre. E il per sempre ha il sapore acido di una scoperta inattesa, l’invadenza propria dell’infinito.

È una certezza, questa, unica nello spazio di quel letto alla quale sarebbe meglio non aggrapparsi, ma lei s’aggrappa, altro non può fare, altro non resta se non aggrapparsi a qualcosa, anche allo slabbro di una ferita lacerata dal proprio peso agganciato all’orlo di un precipizio.

Negli occhi, se la sente negli occhi la vergogna, la nausea, l’indecenza del proprio corpo, della propria anima perché fin là lui è arrivato, dove forse mai è arrivato qualcuno, non con questa furia. Negli occhi se la sente quell’infamia, come fosse una ruga che d’improvviso le ha inciso il volto di un’espressione, a dire al mondo intero, a chiunque la guarderà, che sì, quello è successo, colpevole di aver abitato quell’evento.

Lo sente muovere, non lo vede, lo ha di spalle, ma lo sente come fosse in intimità con lui come non lo è stata con nessun altro. Lo sente, fortemente. Può sentirne lo sguardo che adesso certamente l’accarezza, soddisfatto, beatificato di un piacere che si è preso da sé, anche pescando nel suo vano dibattersi, nel suo terrificato rifiuto, strappando dalla sua carne pestata, insolentita, vessata un prepotente godimento. E sente poi quella mano che si appoggia sui suoi fianchi quasi a chiedere folle complicità, forse anche a confortare, ma è come se d’altri fosse il corpo.

Non sua può essere quella pelle che anche risponde a quella carezza con un brivido, ripugnata. Anche il ripugno esprime coesistenza.

Non sua, quella pelle. Non può, non deve. E però la sente quella mano, e la pelle sotto pure, scaldata dal contatto di quel palmo che forse le brucia, per quanto dove non sappia, non capisca, probabilmente ovunque.

Attorno è freddo, ancora più freddo per quel calore sgradito, fastidioso. Talmente freddo che le sembra di essere immersa in acqua gelida.

Tremare aiuta, quantunque confessi la condivisione di questa realtà, una sua certa partecipazione. È necessario chiudersi, annaspare nella memoria alla ricerca di un dolce ricordo, una tenerezza da portare qui, ora, che sia forte e s’imponga, che sappia strapparla dall’attenzione verso il presente, che sappia calmare l’ansare in respiro.

E cerca di sovrapporre a questo altri momenti, momenti in cui le carezze hanno diffuso tepori e fremiti, in cui l’amplesso ha unito corpi, diffuso anime… ma niente è sovrapponibile. E li riprova tutti quei momenti, sforzando la mente ad ancorarsi almeno a un’immagine, almeno a un odore, a un sapore, ma immagine odore sapore si dileguano vani, e subito si impone lui e il suo odore e il suo sapore, di null’altro pare essere fatto il mondo.

E li riprova ancora quei momenti, con ossessiva disperazione, partendo dal più recente, e via, a ritroso verso il più remoto, soffermando la mente però per poco, perché poi si attenua il ricordo anche il più soave, e quel che resta tra le dita, negli occhi, nel corpo intero, nel mondo tutto, altro non è che questo: l’adesso. Ogni evento, gradito e affettuoso, pare allora conseguire nel tempo rispetto a quest’istante, anziché precedergli.

Con le gambe rannicchiate, le braccia ad abbracciarsi. Contenersi tutta in poco spazio, ancora meno di quel che le serve. Trattenersi. Ma dall’andar dove? Nessun luogo potrà mai ospitarla per intero, e sempre l’idea della fuga, l’idea dell’asfissia le agiterà il riposo.

Toccarsi. Sentirsi vera e presente. Semplicemente sentirsi. Basterebbe forse questo, non fosse che il sentirsi porta con sé il sentire pure quella mano poggiata sul fianco, ancora lei, continuamente lui, come il gatto col topo, che forse le chiede comprensione, anche scusa per l’ineluttabilità dell’accadere.

Ma toccarsi vuol dire sentire anche i lividi, lividi sulla pelle, sulla carne, dentro, molto più dentro, là in fondo, dove nessun unguento può arrivare ad attenuare il senso della ferita, la contusione, la profanazione.

E adesso c’è il muro da guardare. Bianco. Qualche segno qua e là. Nessuna porta, da questa parte. Nessuna porta in assoluto. Comunque andare non è possibile. Andarsene ora vorrebbe dire entrare nel mondo, cercare qualcuno a cui raccontare per avere conforto, mostrare il proprio sguardo il proprio corpo il proprio terrore e sapere che nessun altro può sapere, realmente sapere, se non lui, lui che c’era, che ancora c’è. Lui solo…

Lui, che adesso si alza dal letto. E il letto ondeggia. E lei pure. Lei che gira il capo dalla sua parte. Lo guarda. Ne guarda il sorriso, il sorriso di chi soddisfatto non cerca nemmeno di giustificarsi nel sorriso altrui.

Lo guarda, mentre s’infila i pantaloni, mentre tira su la cerniera lampo, e sente quel suono intollerabile, come di lembo di pelle strappata, come il suono che ha fatto entrandole dentro, che sa fin da ora esserle entrato per sempre nel futuro. Lo odia, ma ha paura della solitudine annunciata da quei suoi gesti. Sola no. Vorrebbe dirglielo, e a stento se ne trattiene.

Sola no. Con se stessa resterà il ricordo, più atroce del vissuto. Il ricordo non perdona, resta conficcato con il suo rostro nei pensieri, e poi nella carne, e poi nel sempre. Sempre. Che a strapparlo c’è da staccarsi a pezzi, c’è da farsi a pezzi.

Lui si gira, mostra la schiena, si china, si rialza. Si gira ancora. Dice anche qualcosa, ma è come se lui e la sua voce fluttuassero in altra realtà, realtà fredda, distante, oppure allucinata, lenta, lenta ed estesa.

Lui esce.

Lei si rigira e stringe ancora di più quel suo corpo scosso da brevissime convulsioni. C’è da andarsene. Dove? Che ovunque con lei resterà questo senso del ribrezzo, per sé, questo senso del cadere, questo sguardo sull’abisso, buio…

 

 

(da Il guadante e il guardato, Book Salad, 2015)


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