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Andrea Ermano. S’aggira per l’Europa uno spettro, rosa come il principe azzurro
Utøya, 29 luglio 2011
Utøya, 29 luglio 2011 
20 Marzo 2016
 

Molte delle giovani ragazze ammazzate da Breivik nel 2011 sull’isoletta di Utøya erano ai loro primi sogni d'amore romantico. Ma avevano già imparato a diffidare da cose tipo il "principe azzurro", uno che pos­siede troppe qualità e troppo straordinarie per essere vero...

 

 

Il 22 luglio di cinque anni fa un signore di nome Breivik, se­di­cente capo del Partito nazista norvegese, uccise 77 persone tra cui 69 giovani socialisti che avevano l'unica colpa di essersi riuniti sul­l'i­soletta di Utøya per svolgervi la festa della loro organizzazione: «Oggi morirete», gli diceva mentre li ammazzava uno dopo l’altro, e il più giovane aveva 14 anni.

Al sopraggiungere (tardivo) della polizia lo stragista depose le armi, alzò le mani, si arrese ordinatamente, si fece arrestare, fu processato e condannato a 21 anni di galera.

Ora questo signore – che vive in tre stanze con tv e toilette separata – fa causa allo stato norvegese ritenendo che siano stati violati i suoi diritti umani a causa dell'isolamento carcerario cui viene (parzial­men­te) sottoposto. Il controllo della posta e i colloqui da dietro un vetro vengono da lui paragonati al waterboarding, una tecnica di tortura in uso durante l’Amministrazione Bush jr.

È paradossale che con tutti i problemi realmente esistenti nei sistemi carcerari europei (quello italiano in testa) un tribunale norvegese debba occuparsi proprio dell’orrendo stragista.

In realtà, Breivik continua a rappresentare un alto potenziale di pericolo per la società, come certificano le perizie psichiatriche che lo riguardano. E la gente di Norvegia lo odia profondamente. Quando costui passa accanto alle celle degli altri dete­nu­ti per accedere alla zona telefoni del penitenziario dove fino a qual­che tempo fa intratteneva lunghe conversazioni con una sua “amica”, gli altri detenuti lo bersagliano d’insulti e minacce.

Lo scorso anno un recluso riuscì a eludere il sistema di sicurezza penetrando fin dentro al settore di reclusione riservato allo stragista di Oslo. Giunto sino al punto in cui li divideva solo una porta, la porta della cella, il detenuto urlò a Breivik:

Ecco, se non ci fosse questa porta io adesso ti ammazzerei!

E perché? – domandò Breivik.

Perché hai assassinato tutti quei ragazzini – gli rispose l'altro.

Io amo il mio Paese! – gli gridò dietro il nazista mentre i secondini già trascinavano via l'intruso.

 

Non poche delle ragazzine ammazzate da Breivik erano ai loro primi amori intessuti di sogni. Ma probabilmente già diffidavano di quella tendenza dell'animo che porta a desiderare il “principe azzurro”, cioè una persona talmente ricca di bellissime qualità da non poter in alcun modo esistere se non nella forma incantata di un'astrazione. È dav­ve­ro terribile che sia loro capitato in sorte, invece, un “principe nero” così in­cre­dibilmente dedito al male da sembrare anch'egli a sua volta un'a­stra­zione, seppure in senso inverso.

Breivik – figlio di un diplomatico – aveva organizzato ac­cu­ra­ta­mente quella strage con tanto di fucile d’assalto e pistole automatiche. Ac­coppò con fredda brutalità quei giovani inermi, a lui sconosciuti, e a suo dire fece questo allo scopo di mettere in guardia la Norvegia e l'Occidente dalla de­ge­ne­ra­zio­ne socialdemocratica dell'accoglienza e del pluralismo culturale “che imbastardisce le nostre civiltà”.

Forse non è del tutto inutile ribadire che le nostre civiltà sono state grandi e stabili quando hanno saputo produrre forme statuali inclusive e pluralistiche, mentre il “Reich millenario” è collassato dopo solo dodici anni di caos e furore.

Dopo la strage, il Governo socialista norvegese garantì un giusto pro­cesso all'assassino. Qualche mese più in là i socialisti perdettero le elezioni, forse anche a causa della paura vigliacca ma umanamente comprensibile diffusasi dopo l'attentato.

Al momento i socialisti nor­ve­gesi conducono la loro civile battaglia d'opposizione. Prima o poi è verosimile che torneranno al governo.

È difficile trovare oggi un esempio più alto di moralità politica e di compostezza umana.

Dopo Utøya c’è uno “spettro rosa” che s’aggira per l’Europa. È lo spettro di quei giovani martiri delle loro idee, idee che non muoiono. Ma tutto questo non fa notizia. Nel­l'im­ma­gi­nario mass-mediatico continentale come nei percorsi mentali degli opinion-leaders i socialisti vanno squalificati, sistematicamente. I giornalisti ne parlano solo quando c'è da eccepire.

Un esempio di ciò l'abbiamo voluto esporre noi stessi la scorsa set­timana riportando alcune osservazioni di un giornalista del Cor­rie­re della Sera, Goffredo Buccini, il quale si è divertito a mettere in luce le contraddizioni (reali) in cui sono incorsi il premier svedese e quello austriaco sul tema dell’immigrazione.

«Ancora a settembre, Stefan Löfven, premier socialdemocratico della tollerante Svezia (prima in Europa per numero di rifugiati), ave­va bacchettato l’ultradestra di casa sua: “Noi accogliamo chi fugge dal­le guerre! Il nostro Paese non costruisce muri, apre porte!” Poche set­timane (e ottantamila profughi) dopo, alla vigilia della chiusura del ponte di Öresund, ha dovuto spiegare in lacrime agli svedesi esa­sperati ciò che loro già temevano: “Non ce la facciamo più, dobbiamo ri­mettere i controlli alle frontiere”. Lo scorso ottobre Werner Fay­mann, cancelliere socialdemocratico austriaco, visitando due campi di rifu­giati in Grecia, commosse Tsipras… e attaccò Viktor Orbàn, il pre­mier ungherese xenofobo sospettato di derive fascistoi­di… A fine gennaio ha rotto con la Merkel (troppo buonista) e messo in cantina Schengen, vagheggiando il “muro del Brennero”. Ieri, al vertice di Bruxel­les… Faymann s’è trovato accanto a Orbàn in un asse “neoa­sbur­gico”, anzi, schiacciato sotto di lui, nell’invocare “la chiusura di tutte le rotte, anche quella balcanica”».

Tutto giusto, per carità, ma le cose dette sui due premier socialisti si potrebbero a ben maggior ragione ripetere di quasi tutti gli esponenti delle altre famiglie politiche europee. Senza contare che in campo socialdemocratico prevalgono le politiche di apertura e accoglienza, ma anche di esse non si parla. E senza contare, soprattutto, che l’on­data d’isteria collettiva a sfondo xenofobo viene massicciamente ali­men­tata da quegli stessi media che poi si ergono a censori della po­li­ti­ca, di qualunque politica, soprattutto se socialista.

Da al­meno due decenni è esattamente di questo che si tratta: destrutturare la politica e lo stato, in quanto tali, per lasciare mano libe­ra agli animal spirits del danaro che “lavora”(!), ma non suda. E non puzza mai.

La crescita della Allianz für Deutschland alle recenti elezioni regio­na­li tedesche evidenzia l’intensità con cui i trend quando non le consapevoli strategie di propaganda mediatica con­tinuano a tirar la volata alle destre populiste. Certo, una residua attenzione vie­ne ancora riservata, tanto per far scena, ad Angela Merkel cui vanno ipocriti tributi per la “fermezza della statista”. Dimenticando per lo più che dietro alla Cancelliera c'è pur sempre un'alleanza di centro-sinistra sorretta dalla SPD. Ed è appunto questa formula del centro-sinistra, questa grande coalizione tra socialisti e popolari – nella quale l'Europa potreb­be ancora riparare ravvedendosi ed evitando il peggio – ciò che i grandi strateghi della con­ser­va­zio­ne da un ventennio combattono in tutti i modi.

Il problema sta qui nel tratto “sociale” che le politiche di centro-sinistra indispensabilmente contengono: un intervento di regolazione statale in materia economica. O bestemmia! O sacrilegio!

L’establish­ment non vuol certo vedere turbato il mega-trasfe­ri­men­to di ricchezza dal basso all’alto proprio mentre l'idrovora anarco-ca­pi­talista sta girando a mille: speculazioni, armi, droga, schiavi, guerre e mille mercati illegali... Mai gli affari sono andati così bene, per lor signori.

 

Andrea Ermano

(da L'avvenire dei lavoratori, 17 marzo 2016)


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