Herta Müller
Il paese delle prugne verdi
Traduzione di Alessandra Henke
Keller, 2010, pp. 256, € 16,00
Nei romanzi di Herta Müller, premio Nobel per la Letteratura 2009, si trova molto della sua vita. La voce narrante di questo romanzo, una ragazza, appartiene infatti ad una minoranza tedesca della Romania che vive in condizioni di enorme difficoltà sotto il regime di Nicolae Ceaușescu, fino al momento del suo espatrio in Germania: nata in un villaggio di lingua tedesca del Banato rumeno, Herta Müller perde il lavoro ed il diritto di pubblicare dopo il rifiuto di collaborare col regime di Ceaușescu, finché nel 1987 riesce ad emigrare in Germania.
Il regime è come un grande occhio ed un grande orecchio, niente sfugge alla polizia del dittatore, ogni gesto, ogni mossa ed ogni parola devono essere ponderati, proibito il canto, la poesia, la fotografia, ogni forma di arte, perché libera espressione del pensiero e del sentire. Consolatorie sarebbero le parole di un canto popolare “Ognuno aveva un amico in ogni pezzetto di nuvola/ così è infatti con gli amici dove il mondo è pieno di terrore” se non diventassero esse stesse una colpa grave e perseguibile. La posta è rigorosamente controllata: i tre amici, Edgar, Kurt, Georg e la ragazza, si preoccupano di mettere un capello nelle lettere che si inviano, ma il capello scompare sempre. Si ricorre ad un linguaggio da setta segreta, si usano perifrasi in modo da inserire espressioni particolari, un interrogatorio subìto si esprime con “forbici per unghie”, una perquisizione con la parola “scarpe”, un pedinamento con “raffreddato”, una minaccia di morte con una virgola dopo l’apertura. C’è un capitano di polizia, Pjele, che si rivolge loro con modi falsamente umani, si fa aiutare da un cane feroce che porta il suo stesso nome e non li molla un momento.
Hanno studiato in città questi ragazzi, sono venuti dai campi di meloni e dagli allevamenti di pecore, sono rimasti quattro anni in un collegio per studenti, ciascuno in un quadrilatero che comprendeva cinque letti e un armadio, un altoparlante per diffondere gli ordine del Partito, occhi non visti dovunque a spiare. Hanno povere cose, le ragazze si fermano le smagliature delle calze con lo smalto per unghie, sognano di tornare al paese con un uomo che abbia le unghie pulite. Hanno padri con la coscienza sporca, che hanno fatto cimiteri per le SS.
Ci sono morti inspiegabili, si muore accidentalmente anche quando si crede di essere al sicuro. Lola è arrivata dal Sud del paese portando addosso i segni del suo ambiente povero, si guadagna frattaglie di animali concedendosi nel parco agli operai dei macelli alla sera, è iscritta al Partito. La trovano appesa ad una cintura nell’armadio. Il Partito la espelle dopo la morte e la cancellano dal registro. La paura accompagna ogni momento della giornata, le letture pericolose si devono nascondere in posti impensati. Si vive con la speranza che il dittatore muoia, ogni giorno si parla di una nuova malattia, ma non è altro che la proiezione dei desideri comuni, non certamente del dittatore e delle sue guardie, che si alimentano di odio nella loro quotidianità aggressiva.
Tutti vivono con la speranza di fuga ma i tentativi falliscono sotto le armi da fuoco delle guardie. Le guardie si ingozzavano di prugne verdi, aspre, è come ingoiare la morte: “I mangiatori di prugne erano contadini… non mangiavano per fame, ne erano avidi per il sapore aspro della povertà davanti alla quale appena un anno prima abbassano gli occhi e chinavano il capo come davanti alla mano del padre”. La miseria, lo squallore, si respirano e si vedono dovunque.
La Müller crea figure straordinarie intorno ai protagonisti: il nonno della ragazza, che ha fatto la prima guerra mondiale e gioca con gli scacchi che si è intagliato da solo, la nonna che prega, la nonna che canta ma perde la ragione e fugge per i campi, il barbiere strettamente legato alla storia di tutti, i vecchi che vanno in silenzio a visitare la tomba dove già è scritto il loro nome.
Ha un fraseggio breve, fortemente metaforico, come un tentativo di alleggerire il peso del dolore, o di camuffarlo, una necessità di prendere fiato.
Marisa Cecchetti