Claudio Magris
Non luogo a procedere
Garzanti, pp. 368, € 20,00
Un ipotetico e immaginario museo della guerra dove, in ogni sala è esposta un’arma, piccola o enorme che sia, gladio, fucile o cannone da 400 tonnellate o tank possente e blindato. E quest’arma da sola parla, racconta di morti e di stragi per lo più inutili, di odi tra popoli, di combattimenti atroci e violenti. Questo l’ultimo libro di Magris, più di 400 pagine appassionate, che non lasciano tregua, che incalzano il lettore con la loro voluta atrocità. Non c’è spazio per il sorriso e nemmeno per l’ironia. Spazio e tempo sono volutamente confusi e se l’ascia bipenne richiama la selva caraibica e la lotta primaria così il tank possente e con potenza di fuoco micidiale ricorda la selvaggia furia distruttiva della seconda guerra mondiale. L’autore passa da un’epoca all’altra con disinvoltura e ci lascia l’impressione di un’umanità ossessionata dalla guerra, preda del demone della guerra, senza pietà.
Un libro che è poco definire delirante nel senso della febbre visionaria che guida l’autore e lo trasporta dai campi di battaglia delle guerre napoleoniche alla tragica grottesca avventura di Massimiliano d’Asburgo e della sua donna, fasullo imperatore del Messico, di fatto burattino delle potenze mondiali.
Ma su tutto domina l’orrore dei lager e delle foibe, rappresentate da una mazza, quella mazza che fracassava il cranio del predestinato alla tragica caduta nella fossa dei morti. Ultima tragica rappresentazione della crudeltà dell’uomo, della sua inguaribile sete di sangue e di distruzione.
Un libro scritto – sembra – di getto ma documentatissimo. In esso sono presenti anni di storia umana, di carneficine e efferate torture. Lo scrittore non si ferma di fronte all’orrore, entra con ferocia nell’inferno spietato della crudeltà umana, in cerca forse di una purificazione di una rigenerazione.
Non è per tutti questo capolavoro di Magris. È per lettori che hanno lo stesso suo impulso a ripercorrere la tragedia per superarla definitivamente. E che sono in grado di affrontare uno stile narrativo di rara bellezza ma che possiede la durezza dell’acciaio.
Mario Lucchini