Sono giorni terribili per Aleppo, una delle più antiche città della Siria, cuore economico del Paese, oltre che simbolo di una cultura millenaria. La metropoli è sotto il fuoco spietato e congiunto del regime siriano e dell’aviazione russa e gli abitanti che hanno resistito alle barrel bombs per cinque anni ora sono in fuga, non si sa per dove, così come non si sa se mai troveranno accoglienza.
Aleppo sta morendo. Qualche giorno fa ho iniziato a scrivere per lei un epitaffio, ma è rimasto un’incompiuta… Aleppo non deve morire. Il dramma di questa città si sta consumando davanti agli occhi di tutti, ma la politica continua a percorrere strade volutamente annodate e chiuse e la tragedia umanitaria assume proporzioni sempre più grandi. Nessun pudore per i tuttologi dell’ultima ora, che Aleppo non saprebbero nemmeno indicarla su una cartina geografica, ma non esitano a schierarsi e assumere l’atteggiamento di tifosi estremisti. Nessuna pietà per le centinaia di migliaia di civili che continuano a morire e per quelli che prendono i figli in braccio e cercano di correre via, lontano.
Ho lasciato l’epitaffio come bozza e stasera voglio ripubblicare ciò che ho scritto nell’agosto 2013, dopo il mio primo viaggio in questa città. Parole che sono ancora così tristemente attuali, anche se sono passati già tre anni. Aleppo è la città delle mie origini e vederla esanime mi fa rivivere quella sensazione dolorosissima che si prova quando si perde un familiare. Ma Aleppo non deve morire…
Quando arrivo ad Aleppo è ormai notte. La città è immersa nel buio più profondo e le uniche luci sono quelle di cassonetti incendiati e di alcuni generatori. L’aria è irrespirabile: è l’odore della morte che avvolge il centro abitato. Il buio è interrotto solo dagli spari; raffiche di mitra ed esplosioni scandiscono la notte. Alla luce del sole scopro intorno a me macerie e devastazione. Fa uno strano effetto vedere bambini che camminano in strada, anziani seduti a fumare, donne e uomini che si muovono furtivi. Fa uno strano effetto rendersi conto che la gente lotta disarmata per sopravvivere. Anche i cecchini si sono svegliati e sparano, feriscono, uccidono. Inizio la mia prima intervista con un volontario della Protezione Civile che, a mani nude, scava alla ricerca dei corpi intrappolati sotto il peso delle loro stesse case piegate dalle bombe. Sentiamo un urlo. Ho la fotocamera appesa al collo e la handycam ancora in borsa. Le accendo entrambe, le metto in funzione: hanno trovato il corpo di una donna. Era lì da una settimana. Le prime immagini che immortalo sono quelle di giovani intenti a recuperare i corpi senza vita di civili uccisi senza pietà da ordigni illegali. I cadaveri sono ormai irriconoscibili; una striscia di nastro adesivo con su scritta la data e il luogo di ritrovamento diventa l’unico segno distintivo. È la Siria di oggi: la terra dei gelsomini coperta di fosse comuni. Nelle zone di periferia, immense tendopoli in mezzo agli uliveti fanno da riparo a milioni di sfollati. Negli ospedali da campo i feriti sanguinano a terra senza neppure un letto. I bambini non vanno a scuola da tre anni e con i loro occhi grandi ti interrogano senza farti domande. Quando sorridono, tutto intorno sembra tacere…
Asmae Dachan
(da Diario di Siria, 14 febbraio 2016)