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Luis Cino. Perdonare il castrismo?
Luis Cino (al centro) con Manuel Morejón e Carlos Montoya (foto cortesia di Luis Cino)
Luis Cino (al centro) con Manuel Morejón e Carlos Montoya (foto cortesia di Luis Cino) 
28 Gennaio 2016
 

Porto rancore. Devo ammettere che, almeno in questo, gli ufficiali della Sicurezza di Stato che, per quasi gli ultimi 20 anni, me l’hanno rimproverato in molteplici interrogatori, più o meno intimidatori, avevano ragione.

Sono pieno di risentimento nei confronti di questo abominio calamitoso che qualcuno ancora chiama “la rivoluzione”. Come potrei non esserlo? Dovrei essere masochista o sforzarmi con le unghie e con i denti di emulare Madre Teresa di Calcutta per amare gli esecutori del sistema che da quando ho uso di ragione hanno distrutto la mia vita.

Dovrei essere davvero ipocrita per dire che sono disposto a riconciliarmi e a perdonare coloro che mai, nemmeno per sogno, presuntuosi come sono, hanno chiesto perdono. Non sono un tipo da odio o revanscismo, ma le falsità e l’ipocrisia non fanno per me, perciò lasciatemi al risentimento che, in dosi ragionevoli, poiché lo doso, non mi fa più male di quanto già ne abbia fatto, ma esattamente il contrario: mi aiuta a reggermi in piedi, a non darmi per vinto. Non riesco a perdonare quelli che si sono creduti infallibili, con il monopolio della patria, padroni delle chiavi del paradiso, con il diritto di decretare la felicità collettiva obbligatoria, a costo di trasformarci in pezzi di un ingranaggio, senza libertà né speranza, aggiogati al carro di una storia sbagliata. Non riesco a evitare il rancore verso chi ha fatto sì che i nostri sogni e le nostre aspirazioni individuali, grandi o piccole, ma valide e legittime come le altre, fossero rinviate a tempo indeterminato, annullate in nome della rivoluzione, della patria e del socialismo, che a quanto ci hanno detto, erano la stessa e unica cosa, nonostante non fossero mai stati in rima, non potevano esserlo.

Non riesco a essere in pace con quelli che a suon di consegne che costantemente offrivano la morte come alternativa, hanno diviso le nostre famiglie e polverizzato i nostri valori, trasformandoci in questa marmaglia miserrima, cinica e miscredente, in marcia perenne verso il deserto…

Il mio amore per il prossimo, perché negarlo, non è abbastanza per prodigarlo a chi mi ha sputtanato l’esistenza, ai maestri che con i castighi indicati dal compagno Makarenko hanno avuto la pretesa di forgiare l’uomo nuovo, ai sergenti del servizio militare obbligatorio, agli psichiatri-carcerieri, ai secondini delle unità di polizia, alle spie, a chi ha steso rapporti esaurienti contro di me, a quelli che mi hanno espulso da ogni dove per problemi ideologici, agli ufficiali della polizia politica che mi “fanno visita”, o meglio, mi sorvegliano perfino quando dormo… A niente sono servite le numerose volte in cui hanno cercato di convincermi che tutto il male accaduto non era colpa della rivoluzione, no dai, no, macché, ma di estremisti, quelli di cui parlava Lenin, che diceva fossero opportunisti e non so quanta altra merda. Come se quelli non fossero i tipi adatti per tenere in piedi un sistema come questo! Non dicano più che sono stati errori, perché in essi ci è finita la vita e ormai non c’è rimedio… Non mi rassegno al fatto di essere stato un’altra cavia del laboratorio castrista. I danni sono stati irreversibili e non credo proprio che a questo punto esista un qualche modo per risarcirci. Quindi, ci resta solo il ricordo di ciò che è stato e di ciò che non è potuto essere, perché tra mille difficoltà ce l’hanno impedito. Aveva ragione il poeta Josè Mario – uno che ha patito il rigore delle UMAP – quando diceva che queste spiegazioni per cui “le cose non sono andate così male, che si è trattato di errori di qualche estremista”, sono peggio che dimenticare. Non contate su di me per le smancerie. Sono tra quelli che non dimenticano. Non posso e non voglio. Per questo porto rancore. E con onore.

 

Luis Cino

(articolo per Cubanet, ripreso in
Círculo Cínico, 20 gennaio 2016)

Traduzione di Silvia Bertoli


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