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Gianfranco Cordì. Il grido del gabbiano
21 Gennaio 2016
 

Quella di Anassimandro è la «prima» rivoluzione scientifica della storia dell'umanità Come lo stesso Carlo Rovelli ci informa, nel suo libro Che cos'è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro (Mondadori, 2015), il filosofo di Mileto non solo chiama l'árchè con un nome preciso (ápeiron) ma esprime il concetto che la realtà (intesa sempre in termini meridiani: come sostanza unica del mondo interpretata attraverso i sensi) sia la quantità di materia. Rovelli scrive che la realtà «è quella cosa della quale sappiamo così tanto, ma che, ciononostante, continua a stupirci e della quale immaginiamo ci sia tanto altro da scoprire, forse anche aspetti che non scopriremo mai» (p. 127). Anassimandro, con l'ipotesi dell'infinito, insiste, mettendo in luce la quantità di materia con una messa a fuoco del tutto fotografica della sostanza, nella classica deduzione - che era stata anche di Talete - che il cuore della materia e della sostanza stessa degli uomini sia qualcosa di definito. Ma questo qualcosa non è più l'acqua, come era stato per Talete, ma bensì un'ipotesi e una verifica sperimentale. Dalla quantità di materia tutte le cose hanno origine e tutte vi si dissolvono seguendo il ritmo non del fluire del fiume taletiano, e neppure di quello che sarà poi per Eraclito il pánta rêi, ma piuttosto della necessità. Insomma, quando è terminato il ciclo, imposto da una legge necessaria, la quantità di materia diventa il grido di un gabbiano. Perché?

Intanto il frammento di Anassimandro, tradotto da Rovelli suona in questo modo: «tutte le cose hanno origine l’una dall’altra e periscono l’una nell’altra, secondo necessità. Esse si rendono l’un l’altra giustizia, e si compensano per l’ingiustizia, in conformità con l’ordine del tempo» (p. 77). La trasformazione delle cose, le une nelle altre, è regolata dalla necessità. E questa necessità, è sorretta da un archetipo come nella tradizione platonica, da un modello di ragionamento alla Aristotele, da un paradigma alla Thomas Khun, da un tipo ideale, come suggeriva Norberto Bobbio in Destra e sinistra (Donzelli, 2009). Nella scienza, nel corso dello scorrere del tempo storico nel quale si è esemplata la costruzione di gabbiani teorici, ci sono stati: gli atomi di Democrito, l’etere luminifero di Aristotele, il flogisto della teoria del calore, i campi di Farady e Maxwell, l’etere luminifero di Lorentz, la funzione d’onda di Schrodinger, i quarcks di Gell-Mann e i campi quantistici della meccanica quantistica. Insomma tutta una serie di gridi di gabbiani che poi, nella realtà, non potevano esistere così come avrebbero potuto esistere.

Ma perché gabbiani? E perché il grido del gabbiano è la quantità di materia intravista da Anassimandro? Faraday, per esempio, concepisce la sua idea di campo soltanto dopo numerosi esperimenti e questa entità nuova (il campo) non è affatto presente nella realtà. Rovelli scrive che se la scienza è un «indagine basata su una sistematica attività sperimentale, allora l’inizio è più o meno con Galileo. Se intendiamo un insieme di osservazioni quantitative e modelli teorico-matematici, capaci di mettere ordine in queste osservazioni e fornire predizioni corrette, allora è scienza anche l’astronomia matematica di Ipparco e Tolomeo» (p.105-6). Insomma fare scienza vuole dire puntare il proprio teleobbiettivo (del tutto teorico) su una certa particolare caratteristica della realtà. Ma ai tempi di Anassimando questa realtà era semplicemente fotografata. Talete, infatti, ricercando l’árchè delle cose aveva utilizzato induzione e deduzione. Mentre per Anassimandro, dice ancora Rovelli: «per la prima volta, il mondo delle cose è visto come direttamente accessibile all’indagine del pensiero» (p. 175). Questo accesso (a questo punto, alla riflessione filosofica) è fornito da una fotografia ingrandita col teleobiettivo del pensiero scientifico. In definitiva: se la scienza nel periodo di Anassimandro si fosse occupata di un gabbiano non avrebbe potuto analizzarne il grido. C’era infatti bisogno di un concetto del tutto astratto per fare in modo, come afferma ancora Rovelli, che la scienza diventasse un «guardare più lontano, nel rendersi conto che le nostre idee sono molto spesso inadeguate non appena usciamo dal nostro giardinetto» (p.112).

In sostanza l’ipotesi deduttiva esisteva già con Talete: il mondo era fatto d’acqua. L’ipotesi induttiva è semplicemente lo strumento della scienza, per cui Talete si era trovato a usare i frantoi di Mileto, nel corso della sua vita, come verifica sperimentale del suo stesso metodo di ragionamento. Mancava semplicemente una definizione di cosa fosse in se e per se la scienza: e questo qualcosa era il grido del gabbiano di Anassimandro. Perché la scienza del periodo greco non aveva ancora avuto bisogno di paradigmi. Anassimandro ne introdusse uno: la necessità. Secondo essa le cose «si rendono l’un l’altra giustizia, e si ricompensano per l’ingiustizia, in conformità con l’ordine del tempo» (p. 77). Esiste perciò un ciclo cosmico, sorretto dal un concetto del tutto astratto, attraverso il quale le cose si costruiscono e si dissolvono proprio come un gabbiano che nel corso del suo volo grida, poi non grida più, poi grida ancora e nessuno sa ancora che cosa sia un gabbiano. Ma la quantità di materia, stabilita da Anassimandro, non è altro che la fotografia della realtà. E il teleobiettivo non è altro che la messa a fuoco del volo del gabbiano.

La scienza non è composta da strumenti (l’induzione) e neppure da sole congetture (Popper non afferma affatto questo) ma da entità teoriche che ancora non sono state intraviste nella realtà e che dovrebbero esistere solo se qualcuno un giorno ne sperimenterà l’esistenza.

 

Gianfranco Cordì


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