È stata la lettura del testo di Giulia a riportarmi di nuovo in aula, tra i banchi, alla mia funzione di insegnante. Ho letto il testo con cura e ho colto in esso l’identità di una scuola che fa discutere ma nel contempo mi sono compiaciuta del rapporto che resta inalterato tra docente e discente.
Scrive Giulia:
Entrava in classe sempre con il sorriso. Ancora mi chiedo con quali forze riuscisse a racimolare un po’ di serenità.
Fino a ieri è stata la mia professoressa di inglese, prima che alla metà della prima ora di lezione entrasse in classe per comunicarci che era stata sollevata dall’incarico; per le stesse dinamiche era accaduto due giorni prima al mio professore di italiano. Ma badate, non è accaduto così in fretta come può sembrare.
La verità è che la mia professoressa è precaria, e per precaria intendo dire che vive alla giornata. Languida quella precarietà strisciava tra i banchi durante le lezioni. È sempre stato così, dal primo giorno di lezione, per tre mesi. L’ultimo mese, poi, è stato un susseguirsi di convocazioni che puntualmente non davano risultati. Momenti d’allarme, di sospensione, ci si salutava senza sapere se il giorno dopo ci si sarebbe rivisti o meno. Ma badate, non è stato poi così agonizzante come può sembrare.
La verità è che la mia professoressa sorrideva di continuo, e questo ci faceva dimenticare quell’assurda situazione di sospensione. E mi ricordo che un giorno scoprimmo che il sorriso aiuta nell’apprendimento, gli scienziati dicono che stimola il cervello alla memoria. Non saprei quanto possa essere vero, quello che so è che ho ben memoria di quei sorrisi. Ed ecco, è proprio all’ombra di questi ricordi che mi interrogo su come nella riforma della scuola non si sia dato troppo peso alla continuità didattica. Ma qui si aprirebbe una lunga digressione.
Tornando alla mia piccola realtà, posso dire che entrava in classe sempre con il sorriso. E sì, ancora mi chiedo con quali forze riuscisse a racimolare un po’ di serenità. Forse perché ci si concentra su ogni istante, quando si è così assurdamente sospesi, senza guardare troppo più avanti. O forse perché non è così che si riesce a schiacciare l’entusiasmo, la passione di chi ha scelto l’insegnamento con la consapevolezza che sarebbe stato rischioso, ma senza badarci troppo, scommettendo su questa istituzione che forma il cittadino, la Scuola, e su noi, futuri cittadini del mondo.
Domani si torna in classe. Si ricomincia. Nuovo professore, nuovo metodo, nuova lezione. Ma stesso desiderio di studiare, di vederci un po’ più chiaro. E io sorrido.
E io rispondo:
Non c’è ricordo più bello di quello espresso dai propri studenti, gratificazione impagabile.
Bellissima l’immagine della professoressa che entrava in classe con il sorriso sulle labbra, un gesto di complicità con il proprio mestiere, di affetto per i ragazzi, di sollecitazione all’ascolto.
Poi è andata via come succede ad altri insegnanti e non per propria volontà ma per quello stato di instabilità che si chiama precariato, una sorta di attesa, di speranza per il docente e per il discente affinché non si incorra nel ricambio continuo, che spezza l’intesa, la fiducia, il rapporto instaurato, base di un insegnamento che vede nella continuità la forza di una didattica che progetta, che sceglie le strategie più giuste, che finalizza i propri obiettivi.
Il testo di Giulia si sofferma su uno dei punti cardini dell’insegnamento -la continuità didattica- importante non solo per progettare il lavoro scolastico e le annesse attività scegliendo le metodologie più adatte ma fondamentale per conoscersi, intendersi, capirsi, scoprire le affinità, gli interessi e adeguare percorsi tematici in un’interazione costante tra le varie discipline. È questa la fase più delicata ma anche più proficua di un insegnamento mirato ad informare e a formare, facendo i conti ogni giorno con molteplici realtà e problematiche diverse.
Un processo di conoscenza che richiede tempo, molto tempo che diventa poi prezioso collant tra insegnante e studente per l’impostazione del programma, per la necessità di andare oltre le mura scolastiche, per guadagnarsi la fiducia di chi ascolta e modellare un percorso che coniughi un sapere capace di dare vigore alla fantasia, vitalità per la formazione della propria personalità, creatività che rende ogni ragazzo protagonista del proprio sapere, maturità per acquisire il senso di responsabilità, di rispetto, di amicizia, di solidarietà, il fascino dello studio e il significato della vita come dono da difendere e da custodire, funzioni e stimoli che solo la cultura può trasmettere e consolidare.
Il mestiere dell’insegnante è bellissimo perché si basa su un rapporto biunivoco di dare e di avere reversibile, sebbene sia convinta che per un insegnante ciò che dà ai suoi ragazzi non è mai pari a ciò che ne riceve e che contribuisce al suo aggiornamento e alla sua formazione.
Toccante la conclusione del testo di Giulia che denota consapevolezza, serietà e giudizio critico nel cogliere il senso della scuola che diventa riflesso concreto di vita: “Domani si torna in classe. Si ricomincia. Nuovo professore, nuovo metodo, nuova lezione. Ma stesso desiderio di studiare, di vederci un po’ più chiaro. E io sorrido”.
E io sorrido nel leggere perché solo i ragazzi sanno mostrare la propria maturità nell’adeguarsi. I giovani riescono a darci sempre una lezione: quella di non fermarsi malgrado le delusioni di una scuola che ancora una volta si dimostra inadeguata.
Risponde Giulia:
Saluto sentitamente la prof.ssa Lanzetta. La ringrazio per aver condiviso con me il suo punto di vista e il suo sentimento, che tendo a considerare la voce di ogni maestro e maestra. Questo scritto è per me grande fonte di arricchimento.
Grazie Giulia per per questa ventata di freschezza che rinvigorisce la scuola.