L’auto procede lentamente verso l’aeroporto, sfidando i muri di nebbia che all’alba ostacolano la vista e rendono difficile il percorso.
La prima tappa del viaggio è finita. La prossima direzione è Istanbul, dove ci sono oltre 800mila siriani registrati e altrettanti che si muovono nella clandestinità, in attesa di proseguire la loro fuga verso il nord Europa.
Il conducente è di poche parole e dopo il buongiorno e due battute sul meteo si concentra silenziosamente sulla guida. Per me è meglio così, non ho nessuna voglia di parlare, sono presa da mille pensieri e sto cercando di riordinare mentalmente le testimonianze, soprattutto femminili, che ho raccolto fino a quattro ore prima. Il sonno qui non trova spazio.
Non si vede davvero nulla, ma quel tratto ormai lo conosco. A questo incrocio, proseguendo verso sinistra, si arriva al Ma’abar, uno dei valichi di frontiera che separa Turchia e Siria. Qui, invece, nel tratto dove la montagna che fa da barriera naturale è più bassa, c’è la torretta con il militare di guardia; a questa altezza il blindato mimetico fa continuamente avanti e indietro per pattugliare il confine e impedire gli ingressi clandestini. Ma quel flusso umano non si ferma davanti a nulla, e poche decine di chilometri più a ovest, mi hanno raccontato alcuni testimoni, nonostante i cecchini, la gente supera il filo spinato e si lascia alle spalle la Siria, e c’è anche chi fa il percorso inverso. Avrei voluto provarci anche io, tornare a distanza di un anno e cinque mesi in quella che un tempo era chiamata la terra dei gelsomini, e che ora si è trasformata in un lento fiume di sangue. Ma la Siria per ora è off-limits.
Di testimonianze da raccogliere, ormai, da questa parte del filo spinato ce ne sono centinaia di migliaia e raccontano la complessità di un dramma che ha assunto proporzioni enormi. Le voci dei siriani che ho incontrato sono pacate, ma urlano vicende strazianti. Testimoni e vittime di crimini indicibili. Riparto con la valigia piena di appunti e fotografie, ma il peso maggiore è nel cuore. Credo che ancora non siano state coniate parole adatte a descrivere lo sguardo di chi è sopravvissuto a una guerra, soprattutto se si tratta di un bambino. Dovrò trovarle per non consegnare all’oblio le loro vicende umane…
La nebbia, intanto, continua a salire, ma oggi è buona compagna di viaggio.
Asmae Dachan
(da Diario di Siria, 9 gennaio 2016)