Se litigando con qualcuno gli facessi una linguaccia e lo chiamassi disonesto sarei condannata per la linguaccia e assolta per il “disonesto”.
Più difficile capire se potrei essere condannata per aver mandato a quel paese qualcuno (se Paese lo scrivo con la P maiuscola è vilipendio?), visto che la Cassazione sul vaffanculo cambia spesso idea, mentre più stabilmente ritiene la linguaccia un ingiuria “idonea ad incidere sul decoro e sull’onore della vittima”.
“Cinese di m…” è una offesa, “italiano di m…” no, dal momento che «italiano, nel comune sentire nel nostro territorio è stragrande maggioranza e classe dirigente che non dà luogo a pregiudizio corrente di inferiorità»; «il termine ‘italiano’, accoppiato alla parola ingiuriosa, può essere letto come individualizzazione di una persona singola nei cui confronti si ha disistima, piuttosto che come riferimento ad una identità etnica in quanto facente parte di una comunità nazionale, quella italiana, che proprio nel nostro paese può essere correlata ad una situazione di inferiorità o suscettibile di essere discriminata» (Cassazione, sentenza n. 11590 del 2010).
Dire “gay” a qualcuno è reato perchè «per il contesto della sua utilizzazione esprime riprovazione per le tendenze omosessuali del contraddittorie e un inequivoco intrinseco intento denigratorio».
Dire ad una donna che il suo è un lavoro da uomo è reato: «Le donne non possono esser criticate solo per la loro appartenenza al genere femminile e non si può dire che, ad esempio, in un determinato posto di lavoro, sarebbe meglio sostituirle ‘comunque, con un uomo‘».
Vaffanculo, è reato. Anzi no. Anzi sì.
Dare a qualcuno del disonesto non è un’offesa, «la taccia di disonestà non è assoluta e perentoria, bensì legata alla violazione degli impegni assunti, secondo la versione prospettata dall’agente». Non diversamente, l’espressione ti farò vedere i sorci verdi, in un contesto di reciproca ed accesa animosità, evoca in maniera generica l’intento di far ricorso a tutti i mezzi possibili per far valere la propria pretesa. Cretino invece è un’offesa.
“Abbiamo cose più importanti da fare che ascoltare le sue cazzate“ è diffamazione…
Queste solo alcune delle pronunce della Cassazione in tema di diffamazione e ingiuria a volte ai limiti della schizofrenia lessical-offensiva, come nel caso del vaffanculo, altre ai limiti del grottesco. Su una di queste sentenze il programma televisivo “Le Iene” c’ha persino messo su la rubrica “Mortacci tua”, il reality degli insulti: una specie di candid camera che prende spunto dalla sentenza secondo la quale gli insulti proferiti dai partecipanti dei reality show non costituiscono reato poichè chi partecipa ad un reality show deve immaginarsi che verrà insultato, e gli insulti fanno parte del gioco.
Il reato di diffamazione cerca di inibire chi pensa di me che sia una ladra dal dirlo, non certo dal pensarlo. Quindi per lui ladra rimango. Magari lo dirà anche, ma che nessuno me lo riferisca, altrimenti potrei denunciarlo. E mi immagino gente che trama nell’ombra… che sussurra fra sé offese al mio indirizzo, ed io appostata guardinga a ciò che viene detto, pronta alla difesa del mio onore, del mio decoro, della mia reputazione.
Se proprio volessimo una tutela efficace dell’onore e della reputazione non sarebbe sufficiente inibire alla gente di “dire” male di qualcun altro, ma si dovrebbe inibire anche a chiunque di pensare “male” degli altri. Lì però si lederebbero altre libertà, non si può. Allora il reato di diffamazione è un reato ipocrita…
Penso che il mio onore e la mia reputazione – la considerazione di me – siano costituiti da ciò che faccio e dico, dalla mia persona e dalla percezione che della mia persona si ha nel mondo. E che non è certo per un vaffanculo a me indirizzato che la mia reputazione viene lesa. Se mi danno della “ladra”, o lo sono davvero o è una bugia, e allora non ho motivo di accalorarmi. La mia “reputazione” agli occhi di chi mi conosce è salvata dalla conoscenza che gli altri hanno di me. Chi non mi conosce e si convince, solo perchè qualcuno l’ha detto, che sono davvero ladra, non merita – per superficialità e pressappochismo – la mia attenzione, e dunque non sarà in grado di turbare la mia “reputazione”.
Sta di fatto che, da una parte, gli italiani hanno sempre più il grilletto facile con le denunce per ingiuria e diffamazione, complici Internet e i social network, mezzo di uso immediato e di ampia potenziale diffusione di ciò che si scrive. Dall’altra parte, gli utenti dei social network paiono a volte ritenersi immuni, sol perchè stanno scrivendo su Facebook, da simili accuse. Forse perchè la realtà virtuale – ben reale nella misura in cui chi scrive e chi legge sono persone in carne ed ossa – dà un pò l’idea della distanza da ciò che si scrive, della sdrammatizzazione, o forse il contrario, della vicinanza, come se quello che scriviamo lo leggessero in pochi, come se ne parlassimo “fra di noi”, con pochi amici, quando invece rimane scritto in un luogo cui hanno accesso in tanti.
E così gli alunni di una scuola superiore che creano un gruppo su Facebook contro la bidella della scuola, si ritrovano una citazione in giudizio per danni; in Inghilterra una lavoratrice è stata licenziata perché su Facebook aveva definito noioso il proprio lavoro, ecc. ecc. Fino ad arrivare al paradosso: 67 omonimi (omonimi almeno su Facebook) indagati dalla Procura della Repubblica di Roma per allusioni sessuali che uno di loro avrebbe scritto a danno di una donna.
Da quanto precede alle considerazioni sulla censura su Internet il passo è davvero breve. Sempre più spesso nei telegiornali compaiono notizie che riguardano gruppi su Facebook e l’opportunità di censurarli o meno. Qualche anno scorso, Facebook aveva censurato la foto di una madre che allatta, ritenuta materiale pornografico. Per via delle “politiche” di Facebook, ci è voluto un po' perché un mio amico potesse iscriversi con il suo vero nome (Eros): Facebook infatti non consentiva la registrazione di questo nome, e il mio amico ha potuto registrarsi solo con un altro nome, Giulio, Guido, Carlo, ma non con il suo.
È proprio grazie a (o a causa di) Internet che si riaccende periodicamente il dibattito sulla libertà di opinione e sulla sua possibile compressione. Libertà di rango costituzionale, i cui paletti (peraltro mobili a seconda dell’umore del Paese in un dato momento) sono contenuti in una legge – norma di rango inferiore quindi – retaggio di un regime autoritario. Libertà spesso scomoda, perchè a parte i casi sporadici di cui sopra che riguardano singoli cittadini che denunciano altri singoli, a denunciare per diffamazione su siti Internet, social network, forum e blog sono quasi sempre aziende che pretenderebbero che Internet fosse solo l’ennesima vetrina pubblicitaria per i propri spot, che il dibattito venisse ridotto al silenzio.
Emmanuela Bertucci
(dal Blog del suo Studio Legale, 4 gennaio 2016)