Tra i kolossal più roboanti di Natale e tra le farse più grossolane, non deve passare inosservato un “piccolo” film giapponese – ma “piccolo” soltanto perché non si avvale di ingredienti spettacolari – che ha tra le sue principali qualità: la precisione, la nitidezza, il senso di verità, con cui sono dipinti sentimenti e caratteri.
Almeno per i primi due terzi, Le ricette della signora Toku ruota intorno a un ambiente dei più dimessi: un piccolo negozio, un bugigattolo, specializzato nella preparazione e nella vendita di certi tipici dolcetti. Lo gestisce senza entusiasmo, solo, un uomo di mezza età, che proprio per la sua aria eternamente scontenta, per i suoi modi scontrosi, è preso in giro da alcune vivaci studentesse liceali che sono solite fermarsi per uno spuntino nel suo locale.
Il giro di affari appare modesto, e tuttavia l’uomo sembra non farcela a gestirlo da solo. Ha pubblicato un annuncio alla ricerca di un aiutante. L’aspirante che gli si presenta è dei più improbabili: una signora anziana, elegante, dalla cortesia inappuntabile, che desidera quel lavoro con tanta trepidazione da essere disposta a prestare la propria opera sottocosto. L’uomo rifiuta bruscamente la sua offerta.
Ma si intuisce che nell’ostinazione con cui la donna si ripresenta al negozio, dona a quel gestore un campione della marmellata preparata da lei stessa, con cui si potrebbero farcire quei dolcetti e che si rivela squisita, si nasconde un mistero che ci sarà presto svelato. E che io stesso svelerò ai lettori, convinto come sono che il piacere nella visione di un film non deriva dalle piccole o grandi sorprese disseminate nel racconto, ma dalla qualità con cui sono rappresentati personaggi, ambienti e situazioni (qualità, in questo caso, assai alta).
La donna è malata di lebbra. Per questo le sue mani sono arrossate e deformi. E per questo è stata a lungo costretta a vivere, fin da giovanissima, in un ospizio per lebbrosi: per tutelare la vista dei sani, dai segni ripugnanti della malattia.
Il film contiene certo una denuncia contro il trattamento disumano che il Giappone, fino ad anni recenti, riservava a questa categoria di malati. E tuttavia la sua impostazione complessiva non è quella del film di denuncia. Insieme alla sconfinata amarezza che viene dall’esilio dalla società (e dalla propria stessa vita), il racconto ci propone, quasi scandalosamente, i risvolti positivi che comporta la rassegnazione a tale esilio.
Nella dedizione con cui la signora Toku prepara le sue marmellate, nella cura quasi fanatica con cui tratta gli ingredienti (i fagioli rossi, in particolare), nel rapimento con cui per strada osserva i ciliegi in fiore, o la sera, mentre l’oscurità invade il salone dell’ospizio, guarda incantata dalla finestra il mondo esterno; in questi momenti si percepisce, insieme alla stravaganza, all’esaltazione un po’ folle che è dei solitari e degli alienati, una sensibilità alle bellezze del mondo che sfuggono alla sguardo distratto, a volte sprezzante, dei sani.
Insomma: l’incontro tra la signora Toku e il pasticcere infelice – incontro che avrà una conclusione straziante, forse troppo insistita e prolungata – è portatore di un messaggio di saggezza, a suo modo religioso, destinato a ravvivare e a sconvolgere la vita di quell’uomo.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 21 dicembre 2015)