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Pier Paolo Pasolini, «La sua morte è un drammatico, disperato rapporto con la madre»  
Alberto Carollo intervista Nico Naldini
24 Dicembre 2015
 

In occasione dei 40 anni della scomparsa di Pier Paolo Pasolini, abbiamo provato a delineare, insieme a Nico Naldini, un quadro dai contorni più nitidi di quei giorni terribili seguiti alla tragica morte dello scrittore e regista, che sconvolse e divise l’Italia dell’epoca.

Nelle parole di Naldini affiora, ancora viva e pulsante, la forte emozione per la perdita del cugino che tanto ammirava e ch’era per lui un modello di riferimento, la partecipe vicinanza alla madre, devastata dal dolore, e l’ossessione degli amici e dei collaboratori a lui più vicini, propensi a ordire la tesi di un complotto, di una vendetta nei confronti di un intellettuale considerato “scomodo” per la radicalità del suo giudizio nei confronti della società borghese e capitalista.

Scrittore, regista e poeta in lingua italiana e dialetto friulano, originario di Casarsa della Delizia (UD), Naldini ha collaborato alla realizzazione di tutti i film di Pasolini e, dopo la sua morte, ha contribuito a conservarne la memoria, curando molte pubblicazioni sulla sua figura.

 

Nell’anno del quarantennale della morte di Pier Paolo Pasolini, Guanda propone in catalogo diversi testi dedicati alla sua figura, molti dei quali curati da lei. Mi riferisco a Un paese di temporali e primule, che racchiude l’esperienza friulana di Pasolini, ma anche Romàns, una silloge di alcuni scritti del giovane Pasolini e, con Francesco Zambon, la curatela di Poesie scelte. Soffermiamoci sul suo Breve vita di Pasolini: una precedente versione di questo libro era uscita nel 2000 presso le edizioni Bietti. Le chiedo come ha lavorato a questa nuova edizione, cosa ha deciso di integrare/ampliare e dove intenderebbe soffermare l’attenzione del lettore nella ricorrenza dei 40 anni?

Non ho fatto una vera revisione testuale; il libro era già concepito con una sua forma di riassunto, di concentrazione di dati sulla vita di Pasolini. Mi era stato commissionato per una collana da Valerio Riva, per tanti anni direttore della Feltrinelli. Riva voleva fare una serie di ritratti di scrittori o artisti in genere e aveva cominciato con me. Una volta pubblicato, dopo qualche anno mi son detto: “Peccato che questa casa editrice lo tenga in uno stato di semi-clandestinità”. L’ho perciò proposto a Brioschi della Guanda, che mi ha invitato ad aggiornarlo, a rivederlo. Non sono intervenuto sul testo ma ho aggiunto una parte finale.

Si riferisce a quel poscritto sulla morte di Pasolini.

Certo. Quel poscritto è frutto di immaginazione. Non ho fatto delle ricerche criminologiche e perciò ho realizzato un ennesimo contributo a questa storia; la mia è un tipo di immaginazione non gratuita ma cresciuta negli anni, fin dal giorno della morte di Pasolini. Dopo la sua morte ho trascorso alcuni giorni a casa sua con sua madre e qualche amico; l’ossessione di quel che era accaduto si disponeva in una sorta di storia che un po’ alla volta mi si è consolidata in un racconto, però tengo sempre a dire che è frutto di quello stato di ricostruzione immaginativa che io ho fatto della sua morte in quei giorni tremendi. Sono dovuto andare a riconoscere la salma, sono stato accanto alla madre, che aveva degli attacchi terribili che hanno preceduto una forma quasi demenziale. Il tutto sulla base di quello che mi arrivava, di cui venivo informato; non ho mai voluto interessarmi personalmente, malgrado fossi sollecitato dalla Betti e dai suoi avvocati, dal medico legale. Trovo tremende quelle serate trascorse con Laura Betti, la quale voleva ricostruire l’assassinio come una vendetta. È stata la prima a costruire la tesi del complotto ma al riguardo io non mi sono mai schierato, né a favore né contro, perché non intendo che la morte di Pasolini venga ridotta in questi termini. Si è trattato di un evento tragico che supera qualsiasi relazione criminologica e perciò ho rimesso in un certo ordine narrativo tutte le ossessioni che ho coltivato dentro di me. Pasolini era consapevole di stare per morire; come ultimo atto ha cercato di levarsi la camicia insanguinata, quasi come dovesse tornare a casa e nascondere queste macchie di sangue a sua madre. La sua morte è un drammatico, disperato rapporto con la madre, dove lui cercava di sopravvivere per evitare il dolore che avrebbe causato alla madre. Rifuggo da ogni ricostruzione, perché l’emozione che ancora mi porto dentro non comprende queste ricerche. È un colloquio tra lui, la madre e la morte.

Lo si avverte dalla forza delle sue parole e dalla sua emozione. Quindi, secondo lei, quanto è pernicioso insistere sul gossip, sulla chiacchiera tendenziosa?

Ecco, non vorrei neanche entrare nell’argomento, perché se comincio a discutere di queste cose valorizzo in qualche modo questi punti di vista che sono pieni di bugie. È incredibile come, anche senza volerlo, la televisione mi sbatte addosso queste cose, le dichiarazioni di questi “capitani coraggiosi” che cercano la verità sul caso; questo è un tipico atteggiamento italiano di non credere mai a quello ch’è accertato ma di continuare a ricamarci sopra. A questi non intendo dare alcun peso. Sono in possesso di molte informazioni: lavoravo con e sono stato sempre vicino a Pasolini. Ero a casa sua lo stesso giorno della morte. Quello che sento in queste dichiarazioni è che c’è una parte di verità, alla quale viene cucita un’ipotesi, la certezza di qualcosa ch’è solo invenzione e menzogna. Ne ho sentite di tutti i colori, da Veltroni al Comune di Roma offeso, al dibattito parlamentare. Cosa c’entra, mi dica, un dibattito parlamentare su una materia ch’è appannaggio della magistratura? È stato fatto di tutto per far riaprire il processo, però i processi non si riaprono sulle chiacchiere ma se ci sono fior di prove nuove, che in questo caso non esistono.

La mia potrebbe anche sembrarle una domanda peregrina ma vorrei comunque sentire dalla sua viva voce, in breve, perché è così importante celebrare e tramandare alle nuove generazioni la vita e le opere di Pier Paolo Pasolini?

Direi con semplicità per il valore poetico di questi testi, di questi libri e di questi film. Ogni generazione ha il diritto e il dovere di soppesare, di giudicare queste opere che, alla loro uscita, non hanno destato molto interesse. Alla base dell’opera di Pasolini c’è la ricerca della verità, costi quel che costi. È una sfida al conformismo, a tutti i difetti che hanno contrassegnato la società e la cultura italiana. L’eredità di Pasolini dovrebbe servire alle nuove generazioni per non accettare il conformismo, ma a battersi per quel che sta al di là di questa barriera: la realtà, la verità di quel che accade.

Lei ha condiviso con Pier Paolo la sua prima stagione friulana, l’esperienza dell’Academiuta di lenga furlana. Presumo che in questo contesto abbia avuto modo di approfondire meglio la conoscenza di suo cugino e di considerarne il valore come intellettuale. Quali furono le sue prime impressioni su di lui, se ce le vuole raccontare, e intravide in germe, in Pasolini, quel che avrebbe compiuto e sarebbe divenuto in seguito?

Il mio rapporto con Pasolini sprofonda nella mia primissima infanzia. Io l’ho sempre visto, aveva sette anni più di me; l’ho visto come l’eroe della mia prima giovinezza. Quando ho cominciato a leggere le riviste di Bologna sulle quali scriveva, io mi sono formato, pur poveramente, ho accresciuto la mia cultura e i miei ideali di scrittura. Ho imparato molto da lui, ma in modo autonomo, perché Pasolini aveva come compagno me, sia come intellettuale che nella vita. Nella sua prima stagione friulana io gli ero sempre accanto, ero il suo interlocutore privilegiato. Lui era anche molto severo: non avrei mai potuto essere una sua clonazione, mi avrebbe distrutto. Perciò ho sempre cercato di coltivare qualcosa che fosse mio, e lui questo me l’ha riconosciuto. Pasolini era molto impegnato sul sociale, per esempio. Io non lo ero per niente; il partito comunista non mi ha mai affascinato. Leggevo Trockij, mentre Pasolini era un marxista, ed era il direttore di una cellula comunista.

Rimaniamo nel mondo di Casarsa e nel romitorio di Versuta, nell’immersione in quel mondo contadino, in quel sentimento di innocenza primigenia. Quanto c’era di idealizzato in questo piccolo universo e quanto la visione lirica del giovane Pasolini ha influito e fruttato in termini di sperimentalismo e innovazione della lingua poetica friulana, per sdoganarla dall’alveo vernacolare del friulano udinese?

Questo ha comportato alcune battaglie. C’era sempre qualcuno disposto a sostenere che Pasolini non conoscesse affatto il friulano. Io affermo il contrario: lui aveva avuto come prima scuola friulana la nostra casa di Casarsa; in quel borgo era calato in un mondo di contadini. E poi, soprattutto, il periodo che ha trascorso a Versuta, dove si parlava solo friulano. Lui parlava correttamente il friulano, cosa che a me non è mai riuscita. Anche sua madre lo parlava. Come insegnante parlava l’italiano, ma al contempo prescriveva ai suoi alunni di coltivare questa lingua romanza. Il suo sogno era quello di ricostruire una Romània perduta, un insieme di lingue neolatine come il catalano, il romancio, il rumeno, il sardo come lingua minore, e accostarle alle lingue maggiori: l’italiano, lo spagnolo, il francese. Pasolini ha seguito una sola legge ferrea: per lui la realtà era tutto quel che contava, ma la realtà non è solo quel che appare ma anche ciò che in essa si nasconde. Lui il mondo contadino l’ha vissuto nelle vicende di qualche personaggio che non era lui, secondo antichi schemi di realismo, ma mettendoci del suo e una certa dose di lirismo. I suoi romanzi hanno tutti un nome e cognome reale, ormai gente che non c’è più, perché era affascinato dal mondo friulano, doveva obbedire alle leggi della realtà, all’imperativo di comprendere la realtà. Anche a Roma, la ricerca del reale valeva allo stesso modo che per il mondo friulano, il rapporto è uno solo. Una volta tolta la pellicola delle convenzioni, c’è qualcosa da scoprire ch’è infinito. Solo Flaubert e gli scrittori dell’Ottocento credevano nella possibilità di circoscrivere la realtà in un romanzo, ma non Dostoevskij. Lui è forse il più grande di tutti.

Lei scrive: «Quello che è incontestabile in Pasolini è la sua esperienza del mondo degli umili. Caso forse unico, nella cultura italiana, di un intellettuale che, impegnato a favore delle classi subalterne, è riuscito a spogliarsi di ogni segno della condizione sociale superiore […]». Quell’«amore dell’umile» e quella «competenza in umiltà», di cui scrive Contini, quale importanza formativa ed etica assumono, oggi, e quanto lo resero scomodo, in vita, al potere e alla politica, sia di destra che di sinistra?

Lei fortunatamente ha citato Gianfranco Contini, perché è lui che ha fatto questo lancio critico su questo aspetto di Pasolini. Essere d’accordo con gli umili vuol dire aderire alla realtà interiore, agli strati profondi della realtà. Chiunque può fare della demagogia, del populismo e dire che i contadini sono la classe migliore. No, bisogna spiegare il perché e questo Pasolini l’ha fatto; la sua visione viene interrotta perché si è interrotta la sua vicenda nel mondo friulano, ma questo ha dato a me – e chiedo perdono se torno a me – la possibilità di raccogliere i suoi scritti pensando che fossero interessanti e attuali. Quando si superano certi livelli di conformismo, di compiacimento delle idee correnti, c’è questa grande possibilità di ripresentarsi a 40 anni di distanza e avere le stesse profonde emozioni. Mettiamo sullo stesso piano forse Giovanni Verga, o Ippolito Nievo.

Lei ha avuto modo di seguire la realizzazione di tutti i film di Pier Paolo. Il cinema pasoliniano rivela aspetti di continuità con la produzione letteraria. Come si articolava l’idea di cinema in Pasolini e come divise la critica e il pubblico, generando anche paradossi, come nel caso de Il vangelo secondo Matteo, approvato dalle stesse organizzazioni cattoliche che avevano messo all’indice i suoi libri e quel che Pasolini rappresentava?

La domanda è forse un po’ complicata; io penso che non ci fosse distinzione tra fare cinema e fare politica o poesia. Era uno stesso percorso, cambiavano i mezzi espressivi però il tema di base era quello di rendere poetico un mondo ignoto. Anche per Il vangelo: Pasolini ha contestato subito l’idea che si fosse convertito alla fede cattolica, dicendo: «No, io sono ateo e rimango ateo. Ho fatto questo film per l’enorme qualità epica che c’è in questo grande personaggio del Cristo». Subito dopo voleva fare un film su San Paolo; ha presentato una sinossi ai padri di Assisi, che l’avevano tanto aiutato per Il vangelo, i quali sono inorriditi di fronte a questo nuovo testo e lì hanno detto no, assolutamente non è da farsi, e i rapporti intellettuali cessarono.

Parliamo di Pasolini e della Callas. P.P.P. ne parla così: «Lei viene fuori da un mondo contadino, agrario, e poi si è educata per una civiltà borghese», il che, rovesciato, potrebbe benissimo adattarsi a lui: “cresciuto in una civiltà borghese e in seguito calatosi, con grande passione, nel mondo contadino”. C’era tra i due, una sorta di affinità elettiva, di grande e sincera amicizia. Cosa rappresenta la Callas, nell’immaginario pasoliniano?

Pasolini non era un melomane; conosceva la Callas come tutti; invece lei era amica di Franco Rossellini, che gliel’ha presentata. Lui rimase affascinato da questa figura, che non solo cantava benissimo, ma era pure un personaggio che si imponeva. Pasolini ha pensato subito di farle interpretare un suo cavallo di battaglia, Medea. Poi le ha dedicato dei versi, per lei è anche tornato a dipingere. Che poi i giornaletti di quart’ordine abbiano inventato una storia tra i due non corrisponde a verità. Lei era innamorata, delusa e addolorata dopo quella storia con Onassis e Pasolini era invece deluso, innamorato e addolorato per il timore che Ninetto Davoli, sposandosi, lo abbandonasse. Misero insieme due storie di tribolazioni amorose.

In tutta la sua opera Pasolini ha più volte richiamato l’attenzione sulla perdita del “sacro”. «Sono sempre più scandalizzato dall’assenza del sacro nei miei contemporanei. Io difendo il sacro perché è la parte dell’uomo che resiste meno alla profanazione del potere». Di recente si è parlato del restauro di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). L’ultimo suo film, pur scioccante, è un j’accuse al pubblico benpensante ma anche al potere del neocapitalismo e alla sua incultura. Quanto è attuale, secondo lei, questo pensiero pasoliniano?

È attualissimo. Prendiamo il sesso: viene usato in modo dissacrato nel mondo di oggi, mentre in un ideale di educazione sentimentale e amorosa tra due persone ci dovrebbe essere questo senso di… non dico di sacro perché è una parola che non uso mai, ma di intensità tale da corrispondere a certi ideali che oggi, purtroppo… Non voglio fare il giudice del mondo contemporaneo: Pasolini in Salò ha rappresentato il Nazismo e il Fascismo, l’alienazione del potere.

Pasolini, mi sembra, ha precorso anche i tempi nel capire come quel potere, che al tempo era anche monopolio della borghesia, si è poi impadronito del sesso, del corpo per i suoi fini. Pensiamo all’utilizzo del sesso nel mondo commerciale, per esempio.

È tutto vero quel che dice, ma mi rincresce che il Pasolini di Salò nessuno lo capisce. Pochi possono comprendere queste relazioni. Chi lo vede si soffermerà sui nudi, sul pranzo fatto di merda, sugli aspetti più scandalosi. Le cassandre che prevedono il futuro fanno sempre una brutta fine. L’ultimo desiderio pasoliniano di chiarire la natura del rapporto tra sé e il mondo viene ancora compreso molto poco.

 

Alberto Carollo

(da Sul Romanzo, 2 novembre 2015)


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