Non c’era tregua al caldo asfissiante di quell’estate del 2015. Un mese senza un goccio d’acqua, i prati aridi e giallastri, l’asfalto rovente, le notti insonni, l’incubo delle zanzare come persecuzione a latere. Persino far l’amore era diventato un tormento, se non eri un ricco signore con l’aria condizionata a manetta, una doccia sempre pronta o magari una bella vasca Jacuzzi. Per Giorgio ed Alice non era così. Loro, per l’amore, avevano solo l’auto a disposizione, una vecchia Tipo, usato sottratto alla rottamazione. Si ribaltavano i sedili e via! Ma dove trovare un posto fresco, ombreggiato, nascosto alla vista dei guardoni, che i finestrini andavano chiusi comunque per sicurezza e, dopo un po’, letteralmente si soffocava? Niente, non era cosa.
Lentamente Giorgio percorre un sentiero di campagna a mezza costa, il lago sullo sfondo con le tremule luci della sponda opposta, nella speranza di una soluzione. La stradina si inoltra nel bosco. Alice trema per la paura “dai andiamo via, qui è tutto nero come la pece, torniamo a casa” “ma dai non fare la cagasotto, di qui non passa mai nessuno, tutti se ne stanno sul lago, ammassati come cozze…”
A destra, tra i cespugli di robinie, ecco un inaspettato luccichio, una piscina azzurrissima al di là della rete, un’apparizione paradisiaca. “Chissà che fresco tuffarsi dentro lì, pensa tutti e due nudi… che delizia!” “Ma sei scemo? E come facciamo a entrare, sarà la villa di qualche industrialotto, avrà cani da guardia, ci sarà gente…” “Un’idea! Troviamo l’ingresso, io suono alla porta e chiediamo il favore di fare il bagno… Magari ci sono giovani come noi, ci potremo divertire, che ne dici?” “ Dico che sei pazzo… dai, andiamo via!” Dopo la prima curva della strada sterrata ecco si apre uno spiazzo, un ingresso con un cancello in ferro battuto istoriato, le cifre MG intrecciate sul pinnacolo. È uno spiazzo ben ripulito, contornato da una siepe rasata a regola d’arte e aiuole di rose che completano il decoro. La strada asfaltata principale arriva dall’altra parte, probabilmente risale dall’abitato sul lago che Giorgio e Alice hanno accuratamente evitato.
“La fortuna aiuta gli audaci…! Io suono il campanello, vedrai, sarà uno sballo”. Il suono si ripercuote e fa eco nell’atrio e probabilmente anche nel salone tutto illuminato. Nessuna risposta. Giorgio ci riprova, ripetutamente lo squillo risuona e rieccheggia ma non succede nulla. Alice si appoggia involontariamente al cancelletto d’ingresso e questo cede. La ragazza cade quasi a terra, la salva la maniglia impugnata nella mano destra. Niente impedisce l’entrata. “Dai andiamo – dice Giorgio – i padroni saranno usciti per fare baldoria giù in paese, è giorno di sagra, che ce ne frega… dai, tirati su, cosa vuoi che ci succeda? È aperto, è un invito…” Alice è riluttante ma Giorgio si è proiettato in avanti, corre a perdifiato attraverso il salone, scende due, tre gradini incespicando e intanto si toglie maglietta e bermuda, in riva all’acqua getta in aria i sandali e si tuffa trionfante, sollevando schizzi e provocando onde che sbattono contro le pareti della grande vasca … “Dai vieni, cosa aspetti, è tutta per noi! Yahoo!” “Cosa gridi scimunito - lo rimbrotta Alice - non è casa nostra, stiamo facendo una scemata, ci arresteranno!” “Ma che dici, stupidina, la porta era aperta, non abbiamo commesso nessuna effrazione, e vieni, dai, buttati!”
Alice è esitante, ma poi avverte di essere tutta appiccicosa, sudata, sofferente. Cede alla tentazione dell’acqua fresca, un bel bagno ristoratore… si mette in mutande e reggiseno e si tuffa. Quando riemerge guarda a destra e a sinistra per accertarsi che non ci sia nessuno. Solo buio oltre le luci della piscina e del salone, nessun segno di vita. Giorgio la afferra per la vita, la trascina in una specie di danza nell’acqua, la bacia sulla bocca, la stringe a sé. “No, no Giorgio, qui no. Siamo in piena luce, su un palcoscenico e ci possono vedere, anche se noi non vediamo nessuno...” “Sei la solita piva… ma io questo bagno notturno me lo voglio proprio godere…” e lascia Alice a guardare le sue giravolte, i suoi salti mortali, i ripetuti tuffi a bomba. La ragazza è inquieta, si sente veramente osservata da cento occhi dietro le siepi, la cancellata, il buio del bosco. Dopo due, tre bracciate risale sulla sponda della piscina e si siede per asciugarsi. Il caldo se ne è andato, l’acqua gela sulle membra nude e Alice, tremante, si guarda attorno per vedere se c’è una spugna, un telo abbandonato, qualsiasi cosa per asciugare l’acqua dalle braccia, dalle gambe, dal busto. Scuote la testa e strizza i lunghi capelli neri. Giorgio gioca spensierato, sembra un bambino, non si rende conto della situazione e Alice più volte gli sussurra (ha paura a parlare forte) “andiamo, andiamo prima che ci scoprano…” All’improvviso vede, da sotto la siepe cespugliosa che circonda la piscina, uscire qualcosa che sembra un telo da bagno abbandonato lì, dimenticato in un angolo riparato. Si avvicina e lo tira verso di sé. Il telo resiste “si sarà impigliato in un ramo” pensa Alice e dà un altro strattone. Oh Dio, sono comparsi due piedi, violacei… Alice fa un balzo all’indietro, si sente soffocare, vorrebbe gridare ma non può, finalmente dalla bocca le esce un urlo strozzato “Giorgio!!!... vieni qui!” Il ragazzo esce dall’acqua malvolentieri, le si avvicina “che c’è adesso, hai visto il mostro… rompi…”. “Oh Dio, chi è? Filiamocela prima che si svegli, dai, andiamo via…!” “Ma Giorgio questo non si muove, è morto…” “Come fai a dirlo? L’avrai mica toccato, eh?” Alice non vuole farla lunga. Afferra il telo con le due mani e tira con tutte le sue forze. Da sotto il cespuglio esce un corpo di ragazzo, giovanissimo, forse dodici anni, nudo, supino, le braccia incrociate sul petto, gli occhi aperti rivolti al cielo. Il volto è femmineo, non c’è segno di peluria, ma è un maschio, sicuro, ha i capelli corti, le fattezze muscolari e i genitali scoperti parlano chiaro. Alice e Giorgio si interrogano: “Proviamo a scuoterlo, forse è vivo” “ma che sei scema, se lo tocchi lasci un’impronta… prendo io un rametto e glielo sfrego in faccia… ecco così!” Nessun cenno di vita. Giorgio colpisce con più forza, il corpo si muove sotto i colpi, inerte. È un giovane ragazzino, non c’è dubbio. “Per me è annegato e l’hanno nascosto qui, poi sono scappati…” “Ma chi?...” “Senti Alice filiamo, noi non c’entriamo un cazzo, abbiamo fatto solo un bagno, non c’è traccia di noi. Via via!” I due raccattano velocemente i loro vestiti, risalgono il salone, si tirano dietro il cancello che fa clic e si chiude. “Ma che fai, tonta, era aperto, non chiuso, dobbiamo lasciare tutto com’era… – sussurra concitato Giorgio – ormai è fatta, andiamo.” La Tipo è lì parcheggiata al limitare del bosco, un po’ defilata, per fortuna. Alice sale e si accorge di essere a piedi nudi… “Le infradito, le infradito, sono rimaste in piscina… torno a riprenderle...” “E che fai? Scavalchi una cancellata alta due metri… No, no, sono due infradito qualsiasi, ce ne sono migliaia in giro, andiamo, andiamo prima che arrivi qualcuno! Quando dico che sei la solita stordita!” “Beh, il guaio l’hai provocato tu, hai voluto tu fare il bagno e adesso vedi che succede… la colpa è sempre mia!” Alice mette il broncio, si accoccola nell’angolo del sedile lontano da Giorgio, con le braccia incrociate e il viso scuro, fosco, da imminente tempesta.
Giorgio mette in moto e, senza tentennamenti, infila la strada principale, asfaltata che ha tutta l’aria di condurre nell’abitato. Infatti poco dopo si trovano sul lungolago, la folla dei pedoni che si trascinano sul marciapiedi con il cono di gelato in mano e le ciabatte ai piedi. Giorgio deve rallentare per via del traffico, è impaziente, se ne vuole andare da quel posto, lontano, in un altro comune, dove farsi vedere, incontrare qualcuno, poter dire “ero qui e non là”. Due chilometri a tutto gas ed ecco l’abitato di Portovaltravaglia. Si ferma un attimo, poi realizza un piano, non dice nulla ad Alice. Accosta alla cabina telefonica, niente cellulari per carità, ha una vecchia tessera in tasca quasi scaduta, compone il 112 e copre il microfono con il fazzoletto: “Pronto, polizia, ho visto qualcosa di strano… una villa tutta illuminata, una piscina, un uomo morto… sembra… sulla spiaggia… accorrete, in località Nasca.” “Ma lei chi è?...” Giù la cornetta e via, sempre di corsa, verso Luino. Lì, al bar Clerici si ritrovano sempre Luciano e Fabrizio, con le reciproche femmine, Nadia l’evanescente sciocchina e Sabrina, quella che sa sempre tutto, ha una soluzione per tutto, da come si cucina l’uovo al tegamino a come si restaura un Piero della Francesca. Insopportabili. Ma ne vale la pena, farsi vedere con loro, costruirsi un alibi di ferro. Giorgio trascina Alice giù dalla macchina, è verdastra, le sibila “non fare la scema” e la imbuca con forza dentro il bar. Qualche mezzoretta di chiacchiere e l’alibi è bell’e costruito, indistruttibile.
2.
“La solita bufala dei giorni di festa” commenta il brigadiere Federici, costretto a fare la notte nonostante la sagra del paese, inforcando sulla forcella la cornetta del telefono. Il solito scherzo. Anzi, cade a fagiolo. “Ah, ah, ah – ridacchia soddisfatto – adesso mi diverto io”. Attiva la chiamata per radio della mobile 2, quella di Negrini, che gli è proprio antipatico e che probabilmente sta schiacciando un pisolino nell’area di sosta vicino al lago, sotto la stazione, il luogo più tranquillo del mondo. “Pronto, emergenza in quel di Noasca, morto in piscina, accorrete. Passo. Stop.” “Pronto, centrale, Federici, ma quale piscina, ce ne sono duecentomila, Cristo, non puoi essere più preciso? Passo” “Negativo. Indefinita, riconoscibile per luci accese senza soggetti umani vivi, stop.” “Adesso ti voglio vedere io, coglione! – mormora Federici a microfono spento – un bel giretto per tutte quelle viuzze strette e sterrate, così impari a dormire!” E si appresta a sentire il solito “Niente di rilevante. Un banale scherzo estivo. E voi ci cascate sempre, coglioni, per Dio!”
Invece dieci minuti dopo: “Pronto, pronto centrale. Identificata piscina. Proprietà Mantegazza. Cancello chiuso e luci tutte accese. Nessuna presenza umana. Forzato cancello e trovato morto in margine a piscina. Nudo, dall’apparente età di dodici/tredici anni, corpo violaceo per probabile annegamento, nessun segno di violenza fisica. Avvisare medico legale, procuratore della Repubblica e scientifica. Ah, dimenticavo, l’ispettore Formenton, buttalo giù dal letto quella palla di grasso. Stop”.
Una vera grana quindi, roba grossa. Federici vede già i titoli sui giornali del dopodomani. Per la mattina seguente niente, troppo tardi per la cronaca. Ma non passa un’ora che il luogo, lo spiazzo occupato prima solo dalla Tipo di Giorgio brulica di giornalisti, bellimbusti e curiosi di ogni tipo”.
“Largo, largo, via, lasciate lavorare le forze dell’ordine!”
“Ma chi è? Un bambino? Avrà cercato di fare il bagno di nascosto e l’è negà”
“Già, e poi, negà, con i so pè, l’è andà a fa un relax sota ai cespugli. Ma ragiuna, Bertoldo!”
“E poi, dico io, nessuno dei Mantegazza. Manco il Bertolazzi, il custode. L’han truà in piazza a ciaculà con il Gaetano, casa incustodita, rob de matt”.
“Ma no, Le luci erano accese per fare scena, è la sagra. Il cancello era chiuso, sbarrato. I Mantegazza han ciapà la barca, lo yacth, tucc insema ier matina, destinazione Ascona, il casinò, bellezza!”
“E alura quel fiolin come è entrato e con chi? E la sua identità? Chi l’è?”
“La polizia indaga, il Formenton avrà la sua bela rogna de ferragust!...”
Il suddetto Formenton, infatti, se ne stava tranquillamente dormendo nella sua mansarda della pensione “Marisa” in quel di Luino. Aria condizionata, bagno a disposizione e frigobar rifornito a dovere. Scapolo impenitente non aveva mai voluto metter su né famiglia né casa. Le pensioni e i B&B erano le giuste soluzioni, precarietà non a termine, donne a scadenza, che non si citasse mai la parola matrimonio. Il telefono squillò importuno e fece sussultare la sua enorme mole di 120 chili… “se si tratta ancora di quei fessi che scatenano risse nei bar, giuro che ne faccio polpette…” “Pronto, che c’è? Un morto? A quest’ora, ma non poteva aspettare domani mattina? Un bambino… come un bambino! Morto come? Annegato? In una piscina? E non c’era nessuno a sorvegliare ‘sta cazzo di piscina? Vengo, vengo subito… I genitori di oggi sono dei strafancazzisti… perché li fanno sti frignoni se poi non sanno custodirli? In una piscina… Io il bagno lo facevo nel lago… se no perché ci sono i laghi? C’hanno il lago, lì bello fresco e si fanno la piscina per annegarci dentro…”
Si vestì in fretta, le bretelle gli cascarono due volte mentre cercava di infilarsi i mocassini ultrasfondati, alla fine se ne uscì con la camicia mezza fuori dai pantaloni, sbattendo la porta. Si infilò a fatica nella sua Punto di servizio e si recò sul luogo del crimine. Non ebbe bisogno il Formenton di cercare a lungo. Le luci gialle dei pompieri e le blu e rosse dei servizi di polizia e delle ambulanze lo guidarono sullo spiazzo. Mise un piede a terra, si accese il suo mezzo toscano che trovò nella tasca della camicia stazzonata del giorno prima e chiamò a squarciagola: Pizzaluga! Perrini! Che ci fa qui tutta sta gente? Via, via sgombero immediato o chiamo i corpi speciali, intesi? Non è mica il cinema! Accorsero gli agenti trafelati, si diedero da fare, mugugni e brontolamenti accompagnarono gli sfollati “ma, per Dio, manca se po’ guardà, che democrazia è…”
3.
I Mantegazza furono raggiunti ad Ascona nella villa dei Galimberti, i re dei gelati, mentre si celebrava l’ingresso in società della diciottenne Marika, la figlia prediletta degli stessi. Caddero dalle nuvole (“ma come, la villa era ben custodita, in mano al Bertolazzi, fidatissimo. Tutte le luci accese? E perché mai? Un bambino in piscina? E chi l’ha fatto entrare?”) Fabio, il capofamiglia e la moglie Linda non poterono sottrarsi al dovere-ingiunzione di un rientro immediato. Trovarono parte della villa circondata dalla striscia rosso-bianca che delimitava la scena del crimine, soprattutto la piscina e il suo parterre. Il cadavere era stato rimosso dopo il parere del medico legale, ma rimaneva sulle piastrelle il segno in gesso della posizione del corpo. La salma, traslocata in obitorio, era stata riconosciuta dai genitori, che avevano già, in tarda serata, fatto denuncia per la scomparsa del figlioletto alla caserma dei carabinieri di Portovaltravaglia. La madre inebetita dal dolore continuava a ripetere “ma chi ti ha fatto questo figlio mio e perché” “chi e perché, perché…”, una litania incessante, ossessiva. Alla fine il medico di famiglia, accorso, le prescrisse un sedativo e fu accompagnata a casa: una modesta porzione di una villetta a schiera, che fu presidiata da un carabiniere, per evitare l’assalto dei curiosi e dei giornalisti.
Le supposizioni, le ipotesi, le congetture si rincorrevano di bocca in bocca, si facevano sempre più complicate ed audaci. Prevaleva la versione di un annegamento involontario mentre una banda di ragazzini, intrufolatasi di nascosto nella villa incustodita, sguazzava in piscina. Così le indagini si focalizzarono per un bel po’ tra i compagni di scuola e di oratorio del Maurizio, il biondino morto, ma senza alcun risultato. Erano tutti a casa con i genitori o a spasso sul lungolago a mangiarsi il gelato o a guardare in Tv i cartoni. L’oratorio, a quell’ora era chiuso e Don Benigno, il curato, si era trasferito a Brezzo di Bedero per la stagione musicale della canonica: serata di chiusura con l’orchestra Carlo Coccia.
Il Formenton friggeva. Seduto su uno di quegli orribili lettini di plastica delle piscine, scovato in un ripostiglio, osservava torvo la scena del crimine. Mancavano tutti i pezzi del puzzle, nessuno aveva visto niente, non c’erano oggetti o segni che rimandassero a una colluttazione. Solo un paio di infradito femminili, di taglia 37, dozzinali, che i Mantegazza non avevano riconosciuto come propri e che potevano appartenere a mezza popolazione femminile del lago e dintorni. Però significava che una femmina estranea era stata lì, in quel posto… in compagnia di Maurizio o in altro frangente? E come fare a ritrovarla con quella labile traccia di un paio di infradito?
Formenton fumava, riaccendeva e masticava un mezzo toscano dopo l’altro. Una cosa lo tormentava: l’annegato era stato tirato fuori dalla piscina e ricomposto sotto la siepe, perché? Per nasconderlo?
Per ritardare la scoperta, il riconoscimento? Era la paura a guidare le mosse dell’assassino o altro? Il mistero era fitto.
4.
Le esequie nella piccola chiesa della frazione furono uno strazio, un’angoscia. Oltre ai parenti e agli studenti delle scuole medie una folla di curiosi si accalcava all’interno e all’esterno dell’edificio di culto. Formenton aveva dislocato Pizzaluga Perrini e Federici oltre ad altri due militi dell’arma, in borghese, ad osservare la folla dei convenuti. Si sa che l’assassino o il colpevole è attratto da queste evenienze, si confonde per vedere, per compiacersi della sua abilità o semplicemente, nel suo inconscio, per essere individuato e messo alla prova.
I compagni dell’oratorio erano tutti vicino all’altare, vestiti come i chierichetti delle funzioni solenni, la lunga veste nera, la cotta immacolata e ricamata. Facevano un cerchio attorno alla piccola bara coperta di fiori, alcuni piangevano e si asciugavano gli occhi con i fazzoletti tratti dalle maniche della veste curiale. I genitori e i parenti erano seduti sulle prime panche, tenuti a distanza dal piccolo catafalco da un cordone di vigili e dagli uomini neri delle pompe funebri.
Don Benigno si asciugò gli occhi con un fazzoletto di carta che l’assistente, Don Renato, accorso dalla parrocchia di Germignaga, gli aveva porto e, con la voce rotta dalla commozione, attaccò la sua omelia:
“Un angelo del signore, un cherubino che sta nel cono di luce di Dio, ecco chi è Maurizio. Il Signore l’ha chiamato a sé perché questo mondo sporco, lacerato dal peccato e da ogni tipo di male e di odio non era per lui, non era la sua casa. Lo vedevo io come serviva le sacre funzioni, come si accostava all’altare e ai sacramenti, come risplendeva per devozione e pietà. Diverso da tutti gli altri, destinato alla santità. La sua morte è quasi una dipartita volontaria, un abbandono della bruttezza dell’immondezzaio per la bellezza dei cieli. Certo, la sua assenza crea un dolore immenso in tutti noi, ci manca e ci mancherà per sempre. A me per primo mancherà, che quando salirò su questo altare e non lo vedrò accanto a me, mi sentirò straziare. È morto come muoiono i santi, con le braccia incrociate sul petto e gli occhi rivolti al cielo. Ciao Maurizio, non addio. Ci rivedremo nei cieli dove tu hai voluto semplicemente precederci, il primo degli eletti”. Un singhiozzo interruppe le parole di Don Benigno che velocemente discese dal piccolo pulpito e si affrettò a continuare il sacro rito.
Formenton, seduto nell’ultima fila di sedie della navata, ascoltava e prendeva nota. Gli sembrava tutto molto strano, pieno di incongruenze. Un ragazzino pio e devoto, alieno a bande scapestrate di piccoli adolescenti, che muore annegato in una piscina dove non poteva essere entrato se non trasgredendo. In compagnia di chi? Oppure era annegato altrove e trasportato lì, ma da chi e per quale motivo? Per incolpare i Mantegazza? Non sembrava avessero nemici in un paese dove davano lavoro e pagavano fior di tasse.
I Mantegazza andavano interrogati e così fece Formenton. La signora Linda, minuta e con un fare aristocratico molto contenuto, non aveva proprio nulla da dire. Del tutto estranea, se non per gli affari di beneficenza. Il signor Fabio era un maturo industriale con un solido pragmatismo, un po’ fuori moda ma che rispose alle domande di Formenton con fare diretto e senza alcuna reticenza: “Sì certo erano andati tutti ad Ascona alla festa dei Galimberti… avevano lasciato la villa nelle mani di Bertolazzi, il portiere, fidatissimo… le luci accese in salone e in piscina erano incomprensibili, a meno che Bertolazzi avesse deciso così per fare festa… No, nessun altro aveva le chiavi del cancello, per entrare bisognava scavalcare, affare tutt’altro che facile… Mai visto quel bimbo… l’unica era sentire il Bertolazzi, gestore dei giardini e della piscina”.
Il Bertolazzi era un gras de rost di quelli tosti, pronto a inalberarsi se qualcuno metteva in dubbio la sua buona fede e la sua condotta. Con questi tipetti Formenton andava a nozze, si divertiva a portarli all’esasperazione, li istigava, ripeteva le stesse domande decine di volte, li torchiava. Il comportamento del suddetto infatti era molto molto sospetto. Aveva abbandonato la villa per recarsi in paese a fare baldoria. Unico a conoscere quadri e interruttori per accendere le luci.
“E allora Bertolazzi, se fem? Meniamo il can per l’aia? Chi hai fatto entrare in piscina in compagnia del ragazzino? Chi era? E la donna degli infradito era una bella ganza? Ti sei nascosto a guardare, eh? Ti piaceva? Il chierichetto con una di quelle, eh? Perché era una di quelle che te l’ha data gratis e tu gli hai aperto il cancello per vederla in azione con il ragazzino? Era solo in sua compagnia e poi è annegato e tu lo hai nascosto nella siepe con la complicità di quella lì in attesa di portarlo via, dopo, di notte… Oppure, meglio, vi siete divertiti tutte e due, mascalzoni e pervertiti di merda con il ragazzino e poi lo avete annegato tutti e due perché non parlasse… Non doveva parlare. Per te, gras de rost, licenziamento assicurato. E la galera se non chiarisci le cose…”
“Sciur commissari, mi su nient. Mi ho sarà su il cancel e sunt andà in paes a truà gli amis… Poi tuto sto burdeleri…Mi su nient, gh’el giuri, sciur commissari…”
“E allora chi ha acceso le luci e fatto il bagno in piscina con quel ragazzino? Chi lo ha annegato? Tu solo hai le chiavi o no?”
“Sciur commissari, ghe vor nient a scassinà la seradura del cancel…”
“Ma non era scassinata! Nessuno lo ha fatto. Hanno usato le chiavi!”
“Mi… su sta minga mi”.
“E allora queste chiavi le ha qualcun altro?”
Il Bertolazzi chinò la testa, annichilito dall’incalzare di Formenton. Stette silenzioso per qualche minuto, poi alzò il suo crapone arruffato verso il commissario e disse, lentamente, sommessamente: “sciur commissari, se ghe disi na roba, na coseta, non la dice al paron, se no... se no… mi licenzia”.
“E io ti sbatto in galera, com’è vero Iddio, per la malora! Cosetta o non cosetta, parla! Qui non si fanno patti. C’è di mezzo un morto, per Dio!”
“Beh, un par de ciav l’ho data al Luca, sa, il sacrista. Per via dei cereghet, che ogni tanto, di pomeriggio, quand ghè nisun, vegnen a fa il bagn in piscina. Per non secarmi ogni volta, ghe pensava lu a far la guardia ai cereghet. Io devo ben pensare ad altro, i cavalli, le carrozze, le scuderie, insoma! Podi minga sta a drè anca ai fiolin…!”
“Insomma mi stai dicendo che Luca, il sacrestano ha le chiavi del cancello e può far entrare e uscire chi vuole dalla proprietà dei Mantegazza…”
“Ma no! Solo i cereghet, il pomeriggio, di solito il giovedì, quand il Mantegazza va in città per i so affari.”
“E le chiavi dove stanno?”
“Che ne so io? Il Luca le appenderà da qualche parte…”
“Sentiremo sto Luca. Intanto a te ti sbatto in guardina per complicità in omicidio. Così potrai riflettere sulla tua dabbenaggine”.
“Ma siur commissari mi ho fa nient, quale complicità! Sciur commissari…”
5.
Il Formenton stava maturando una sua idea, una sua ipotesi che andava valutata e provata con calma e ponderazione. Un piccolo errore e tutto sarebbe stato rovinato per sempre.
Pensò che era inutile intanto sentire il Luca, il sagrestano, un povero diavolo con un evidente handicap fisico e che anche non ci stava tanto con la testa. Certamente aveva più volte accompagnato i ragazzini al bagno, ma non certo quella sera, non certo durante la sagra. Meglio tenere occultato e solo per sé il segreto della chiave abusiva, sarebbe diventato utile al momento giusto.
Formenton pensò che – erano le tre del pomeriggio e la calura imperversava implacabile – un bel sonnellino nella sua aria condizionata gli avrebbe fatto bene e aiutato a schiarire le idee. Ma non era passata mezzora, un sonno greve cominciava a pesare sulle sue palpebre che il maledetto telefono squillò. Era Federici, come al solito: “Commissario, c’è qui una signorina, una certa Alice che vorrebbe conferire con lei, urgentemente”. “A proposito di che…?” “Non me l’ha voluto dire” “Dille di sedersi lì sulla sedia e che mi aspetti con comodo”.
“Vorrà parlarmi del paese delle meraviglie – pensò seccato e irritato Formenton, che non sopportava gli individui reticenti e poco diretti – se mi devi dire qualcosa sarà pure per qualche ragione…” Se ne stette disteso ancora una mezzoretta poi si rivestì con calma, si prese un bel caffè forte e si disse “andiamo a sentire la smorfiosa”.
Alice sedeva in punta di sedia e si torturava le mani in preda a un’ansia visibilissima. “Allora signorina – tuonò Formenton aprendo la porta con impeto e mettendo avanti la sua prominente adipe – che c’è di così urgente da interrompere la mia siesta?”
“Beh, commissario, avrei una cosa da dirle… una cosetta, forse però ha la sua importanza”.
“Facciamo in fretta, non ho tempo da perdere”.
“Ad avvisare della presenza del morto nella piscina su, nella villa, è stato il mio fidanzato”.
“Che cosa? – esclamò Formenton mentre stava accendendosi il suo mezzo toscano e, nel contempo, agitando il fiammifero, quasi si incendiava i baffi – e lei me lo dice così, come se niente fosse? Ma questo è un paese di matti oppure il caldo ha dato la testa a tutti!”
Alice si era contratta intimorita sulla sua sedia e quasi stava per scoppiare in lacrime. Formenton si accorse di aver calcato un po’ troppo i toni, di aver bisogno della collaborazione di quella tontarella e addolcì il clima: “Si calmi, signorina, mi racconti con tranquillità tutto daccapo e ci intenderemo”.
Alice, a mezza voce, raccontò di quella serata, della passeggiata in macchina in cerca di un angolino tranquillo, della piscina illuminata e dell’ingresso aperto, del bagno ristoratore e della scoperta del cadaverino, seguita dalla fuga in preda al tumulto e alla paura.
“Eravamo terrorizzati ma anche volevamo avvisare le forze dell’ordine senza avere guai. Ma adesso il rimorso mi tormenta ed eccomi qua!”
“E il suo moroso, tanto coraggioso, dov’è?”
“Non se l’è sentita, è terrorizzato…”
“E queste ciabatte, queste infradito come dite voi, sono sue?” – chiese Formenton alzandosi e aprendo la scatola dei reperti del caso.
“Sì, senza dubbio… nella fuga le ho dimenticate”.
Congedata la spaventatissima Alice, che già si aspettava le manette e la camera di detenzione, Formenton fece dentro di sé il punto della situazione e si disse: “Direttamente in canonica, senza indugi!”
Aprì la porta la perpetua Evelina, una donnetta alta due soldi di cacio e talmente ingobbita da riuscire a vedere a stento il suo interlocutore in faccia:
“Don Benigno sta confessando in Chiesa e ne avrà per un bel pezzo. È la vigilia di Ferragosto”.
“Peccati o non peccati, me lo chiami immediatamente. Urgenza assoluta”.
Il prete si presentò chiaramente contrariato, ripiegando con cura la stola violacea che indossava per il rito della Penitenza: “In cosa posso esserle utile? Come mai tanta fretta?”
“Il piccolo Maurizio, morto come lei sa in circostanze tragiche, era un suo chierichetto, non è vero?”
“Lei, commissario – e parlando fece segno a una poltrona invitando l’interlocutore a sedersi – riapre una piaga che mi tormenta. Ha scoperto qualcosa? Chi è l’assassino?”
“Lei, reverendo ha detto, nell’omelia, che il cadavere era composto con le braccia incrociate e gli occhi al cielo… come faceva a saperlo? Lo ha citato lei nella sua omelia e nessun organo di stampa, nessuno ne aveva mai parlato!”
“Perché sono stato io a comporlo così. Io volevo bene a quell’angioletto più dei suoi genitori, più di chiunque. Io non l’ho ucciso, io l’ho accompagnato in Paradiso”.
“Don Benigno, lei ha commesso un orribile delitto”.
“Non sono colpevole… l’amore non può essere colpevole. Io amavo Maurizio, il piccolo tenero Maurizio…”
“Allora reverendo, gliela racconto io, giusta. La sera della sagra, l’8 agosto, lei non è andato a Brezzo di Bedero. Nessuno lo ha visto al concerto. Ho fatto le mie indagini”.
“La macchina non è partita e così sono rimasto in canonica”.
“Don Benigno. Mi ascolti anche se sa già tutto. In canonica, quella sera è venuto a trovarla il piccolo Maurizio, con un pezzo di torta che la mamma gli aveva pregato di portarle. Di fronte al ragazzino biondo, sorridente, puro la sua lussuria è esplosa. Allora lei ha avuto una brillante idea. Sapeva della chiave del cancello della piscina dei M., faceva un caldo asfissiante. Il Bertolazzi era stato visto in paese e tutti erano a conoscenza della passione sfrenata di Maurizio per il nuoto. Ha proposto al ragazzo un bel bagno come di solito facevano i chierichetti il giovedì, ma voi due, soli. Una volta nella vasca lei ha stretto a sé il ragazzo, lo ha baciato, lo ha trattenuto tra le sue braccia. Ma quando Maurizio si è reso conto che lei tentava un approccio carnale si è divincolato e ha cercato di sfuggirle. Lei, in preda alla passione lo ha raggiunto…”
“Sì, doveva essere mio, l’ho stretto sempre di più a me, il mio sesso lo cercava, gli ho detto ‘abbracciami Mauri, unisciti a me, saremo io e te, una cosa sola’. Il piccolo si è divincolato, mi ha rifiutato… capisce… il mio angelo mi ha rifiutato…”
Don Benigno china la testa. Le lacrime lo strangolano. Le parole gli escono dalla bocca inerti, inespressive:
“Io lo amavo. Era mio. Quel piccolo tenero corpo mi apparteneva. Non poteva sfuggirmi. L’ho stretto fino a soffocarlo, poi l’ho composto con le braccia conserte e gli occhi al cielo. Al cielo! Capisce commissario, noi non siamo di questa terra!”
Mario Lucchini