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Gianfranco Cercone. “Chiamatemi Francesco – Il Papa della gente” di Daniele Luchetti: un monumento, ma non un santino
18 Dicembre 2015
 

Raccontare in un film di finzione fatti realmente accaduti, e in anni recenti, e in cui sono coinvolte personalità di spicco, è un’impresa tra le più ardue. Perché vada a buon fine, occorre che l’autore riesca a riversare le proprie emozioni, i propri sentimenti, in personaggi che non sono prodotti dalla sua immaginazione, ma che si ritrova già almeno in parte definiti dalla realtà storica. Se poi tali figure reali, per il loro prestigio, per la stima che suscitano, creano un senso di soggezione, la simbiosi che dovrebbe esserci tra autore e personaggi è resa ancora più difficoltosa.

Insomma: l’impresa in cui si è lanciato Daniele Luchetti – raccontare gli anni giovanili in Argentina di José Bergoglio – era quasi disperata. Se l’è cavata onorevolmente, senza tuttavia farci dimenticare i limiti intrinseci all’operazione.

In uno dei momenti iniziali del film, Bergoglio si lascia condurre da una ragazza in un’ala appartata di un museo, dove scambia con lei un bacio che appare di amore reciproco. Qualche scena dopo, annuncia ai suoi amici di voler diventare prete.

Ecco: di questa scelta – di questa vocazione – così lontana dall’esperienza dello spettatore comune, il film non riesce a svelarci il senso intimo. Si limita a far pronunciare a Bergoglio una battuta, per la quale Dio lo ha condotto per mano su quel sentiero, come un padre conduce un bambino. Ma è appunto una dichiarazione, che qui sostituisce un sentimento, che avrebbe dovuto essere rivissuto ed espresso.

Del resto il Bergoglio di Luchetti è soprattutto un politico: abile, coraggioso, autoritario al momento opportuno, capace di scelte dolorose ma necessarie, alla difesa degli oppressi, che siano i preti perseguitati e a volte uccisi dalla dittatura (perché ritenuti comunisti o conniventi dei comunisti); o che siano i poveri confinati nelle borgate.

In opposizione al regime di Videla, ma anche alle alte gerarchie ecclesiastiche colluse con tale regime, Bergoglio tratta e dialoga, in nome della virtù politica, con rappresentanti di entrambe le fazioni, senza mai cedere alla lusinga delle onorificenze, con la necessaria prudenza.

Gli sono anche attribuiti alcuni tratti di anticonformismo: come quando apre all’ingresso dei laici la direzione del collegio che gli è stato affidato, perché lo aiutino a risanarlo finanziariamente; o come quando accetta di battezzare il figlio che una donna ha avuto dopo essersi separata dal marito.

Come si vede, è un ritratto che consta quasi esclusivamente di qualità positive. E se non è propriamente agiografico – perché tali qualità sono più di ordine civile che strettamente religioso – tuttavia ha almeno qualcosa della perfezione e dell’esteriorità di un monumento.

Il racconto, nel quale l’azione prevale sull’introspezione, è agile e avvincente. Nell’attore che interpreta il giovane Bergoglio – Rodrigo De La Serna –, nelle sue espressioni come in certi atteggiamenti, si colgono riverberi impressionanti della figura reale e attuale di Papa Francesco.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie Radicali, 14 dicembre 2015)


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