I carabinieri che sparavano ai soldati italiani che non uscivano dalla trincea, le “decimazioni” di cadorna, l’inutile attacco voluto da d’annunzio e finito in un bagno di sangue… (questi e tutti i minuscoli che seguono sono voluti).
L’anniversario del centenario dell’entrata in guerra dell’Italia ha permesso che – finalmente – si parlasse del primo conflitto mondiale, di solito surclassato dal secondo, sul quale oramai in televisione ci viene propinato di tutto (come delle fondamentali trasmissioni sulle “donne del duce”…).
Da appassionato divulgatore di Storia, in questi mesi ho cercato di vedere tutto il possibile sulla Grande Guerra, e quello che ho potuto costatare è che, quasi sempre, non si è andati oltre a temi risaputi come lo scontro tra interventisti e neutralisti, la “Guerra Bianca”, la disfatta di Caporetto o la resistenza sul Piave, le trattative di pace. Il tutto, condito con la narrazione della vita di trincea e di qualche straziante lettera di soldati (spesso senza specificare che la censura era implacabile e che si veniva sbattuti in galera per anni a causa di qualsiasi critica ai superiori).
Oltre a questa genericità, quasi nulla su fatti e avvenimenti specifici poco conosciuti che però avrebbero permesso di capire meglio cosa ha significato “fare la guerra” per gli oltre cinque milioni di italiani mobilitati (59% dei quali contadini).
Chi, ad esempio, ha raccontato che il generale cavaciocchi per una poesia burlesca in cui si diceva che i soldati si sarebbero arresi se non fossero arrivati i rimpiazzi, aprì un’inchiesta e fece fucilare quattro soldati a caso?
O che il generale carignani ordinò di legare alcuni soldati colpevoli di fatti di scarsa importanza vicino alle linee nemiche, così da risparmiare pallottole?
E che il generale graziani, il 16 novembre 1917, fece passare per le armi diciannove soldati per infrazioni come avere salutato senza essersi tolti la pipa di bocca?
Non ho neppure mai sentito le seguenti parole di cadorna, che ben spiegano l’intelligenza delle sue strategie d’attacco (peraltro condivise da tutti gli altri comandanti): “Le sole munizioni che non mi mancano sono gli uomini. Per un attacco brillante si calcola quanti uomini la mitragliatrice può abbattere e si lancia un numero di uomini superiore, qualcuno giungerà alla mitragliatrice”.
Lui, che prima della Spedizione Punitiva del 1916 non ascoltò il generale Brusati che lo pregava di inviare rinforzi in vista di un probabile attacco, e lo sostituì per “mancanza di calma imperiosa”. E che non diede retta a due dei disertori che gli preannunciarono giorno e ora dell’attacco a Caporetto, fermamente convinto di un attacco sul Carso.
E delle incredibili “decimazioni” – cioè l’uccisione di un soldato a caso ogni dieci per presunte insubordinazioni del reggimento – che lui incentivò, chi ne ha trattato in qualche programma?
Ogni tanto, poi, appariva d’annunzio, con le sue pose proto-fasciste e i suoi voli. Peccato, però, che nessuno abbia narrato di quando fu aiutante del comandante Randazzo, bloccato di fronte all’Ermada con il suo 77° fanteria. Davanti a loro si ergeva una collinetta che il vate voleva conquistare ad ogni costo per poi issarvi una bandiera da mostrare – fatto assolutamente improbabile – fino a Trieste. L’azione era assolutamente inutile ma lui, il poeta più famoso d’Italia, ai dubbi di Randazzo rispose recandosi direttamente al comando supremo e ottenendo l’autorizzazione a procedere. Così, superato il Timavo, gli italiani occuparono inizialmente la piccola altura ma nulla poterono di fronte alla controffensiva austriaca, tanto da essere costretti ad arrendersi. Al che d’annunzio, rigorosamente dalla parte sicura del fiume, li fece bombardare. Salvo poi assistere alla dolorosa morte del comandante provocata dalle ferite: il vate, integro, qualche giorno dopo ne lesse l’orazione funebre, in seguito stampata e distribuita a tutta la III Armata.
Ecco, queste sono alcune delle storie mi sarebbe piaciuto ascoltare. E non sarebbe stato difficile proporle. Invece delle solite fonti, sarebbe bastato che qualche sceneggiatore si fosse sforzato di leggere il documentatissimo libro dello studioso dell’Università di Oxford Mark Thompson, intitolato “La guerra bianca” (da cui ho tratto tutti i precedenti spunti). Così, gli spettatori avrebbero potuto sapere che ben un soldato su dodici subì indagini, che ci furono almeno 300 casi di esecuzioni sommarie (contro le 12 dei francesi e nessuna tra gli inglesi). E che, fino al settembre 1919, i tribunali militari giudicarono l’esorbitante cifra di 350.000 casi emettendo 210.000 sentenze, di cui 100.000 per una diserzione che solo per il 7% si era verificata di fronte al nemico ma che invece comprendeva il ritardo dalla licenza, una scrollata di spalle, un tono irriverente.
Alla fine, vennero eseguite 729 sentenze capitali contro le 350 degli inglesi e le 600 dei francesi che – però – possedevano il doppio dell’esercito. E questi dati inquietanti ci mostrano veramente ciò a cui vennero sottoposti i cittadini italiani che, dopo avere abbandonato le proprie famiglie per andare a conquistare delle lontane e sconosciute Trento e Trieste, si trovarono a vivere in trincee piene di escrementi e a dovere affrontare, oltre alle mitragliatrici, ai cecchini e ai terribili bosniaci musulmani con i loro fez, dei comandanti spesso inetti e altezzosi che li trattavano come carne da macello.
Fu anche uno scontro di classe, la Prima Guerra Mondiale. Che invece del momento fondante un nuovo Stato si trasformò in un enorme “tradimento” costato 689.000 morti, oltre a un milione di mutilati e “scemi di guerra”, come si diceva una volta che le guerre c’erano ancora, dalle nostre parti. Un tradimento che avrebbe oltremodo ampliato il solco che già esisteva tra gli italiani e il loro Stato, e che forse non si è mai più ricomposto.
Questo, ci piacerebbe che qualcuno raccontasse, la prossima volta che si parlerà della Grande Guerra.
Ovviamente solo nel 2018, in occasione del prossimo anniversario…
Per adesso, godetevi le donne del duce…
Saludi
Mauro Raimondi