Siamo in guerra? Questa domanda, dopo gli attentati e i massacri di Parigi, circola nei media e tra la gente. La risposta giusta è “no”.
Perché la guerra presuppone una dichiarazione di ostilità di uno Stato verso un altro e quindi l’intervento armato. Anzi noi siamo abituati al concetto della guerra sette-ottocentesca, delle guerre napoleoniche in cui due eserciti armati si scontravano, si massacravano per bene su un “campo di battaglia” e uno ne usciva vincitore, l’altro sconfitto. La guerra era una successione di battaglie, di occupazioni, di scontri armati, in cui la popolazione civile era coinvolta solo in quanto spettatrice o fornitrice più o meno volontaria di supporto (alimenti, alloggi, copertura). Non sempre la guerra ha avuto questo aspetto (possiamo dire) garantista. Sono esistite guerre selvagge, di conquista territoriale, senza alcuna dichiarazione formale.
Ma per noi la guerra è uno stato che si dichiara. Nel 1915 l’Italia è entrata in guerra, nel 1940 Mussolini ha dichiarato guerra. Lo stato di pace o di neutralità e lo stato di guerra come situazione contrapposta.
Il terrorismo è una cosa diversa. Colpisce obiettivi inermi. Non dichiara la sua esistenza. Tutt’al più emette proclami generici, vaghi di ostilità. “Colpiremo Roma”… Di certo non con un bombardamento o un missile, ma in un luogo affollato (l’abbiamo capito!) per fare strage di gente inerme, incolpevole o colpevole solo di vivere. Un terrorismo molto diverso, quello del Daesh, anche dal terrorismo nostrano degli anni di piombo in cui gli obiettivi erano gli uomini di potere, le stanze del potere o di chi era colluso con il potere. Il terrorismo dell’Is è “puro” terrorismo, nel senso che realizza la parola nel suo etimo “terrore”: tende a insinuare il terrore, la paura, lo sgomento per cui la gente comune ha paura ad uscir di casa, evita gli affollamenti, non va più allo stadio, al cinema, a teatro. Se si ottengono questi obiettivi, che sconvolgono la vita civile, il terrorismo ha già vinto la sua guerra non dichiarata, ha inoculato il virus della paura.
Reagire al terrorismo quindi esige da parte della popolazione tutta una specie di eroismo. Cioè: io so che se vado lì, in quel teatro, in quel raduno politico o religioso, mi può capitare di essere vittima di un’azione terroristica come non mi può capitare. Non c’è più un luogo sicuro e uno insicuro, una piazza sicura per definizione e una insicura. E quindi rischio. La probabilità mi dice che è un rischio aleatorio, improbabile ma è la stessa situazione della lotteria: c’è sempre qualcuno che vince, anche se il rischio di vincere è molto basso. Se invece ho paura e non rischio, mi rinchiudo nella fortezza, la do vinta ai terroristi.
Certo: il cittadino ha il diritto di chiedere allo stato il massimo di intelligence, di non sottovalutare nessun segnale, nessun indizio seppur minimo. Ha il diritto chi chiedere tutela del territorio e dei luoghi sensibili, ma ha il dovere di collaborare e di assumersi il rischio di continuare la sua vita normale come se il terrorismo non ci fosse. Il dovere anche di segnalare tutto ciò che può essere sospetto senza isterismi, ma con attenzione.
E con la consapevolezza che il daesh non è un nemico lontano, laggiù nel deserto tra Siria e Iraq, ma che il nemico si nasconde tra noi, è figlio del fanatismo religioso e della rabbia irrazionale che può allignare laddove regna la frustrazione e l’emarginazione.
Non siamo in guerra ma siamo in una situazione di rischio indeterminato come può essere per una zona ad alto rischio sismico: può avvenire la grande scossa come non può avvenire. Il paragone non regge molto, ma abbiamo a che fare comunque con la paura. Che è cattiva consigliera di vita.
Amoproust
(dal blog agesiquidagis, 19 novembre 2015)