Quando lo scorso 4 novembre mi hanno arrestato per nuove presunte accuse contro la mia persona, che non hanno poi dato i loro frutti, sono stato portato nelle segrete sotterranee della stazione di polizia di Zapata y C, al Vedado. All’inizio, mi hanno rinchiuso nella cella che utilizzano come magazzino mentre sbrigano le pratiche dell’ingresso. Alla parete c’era un graffito di El Sexto che mi ha fatto sorridere, perché stava a significare che anche il mio fratello di vita, di arte e attivismo politico, liberato di recente dopo due scioperi della fame nella pretesa che il governo riconoscesse la sua innocenza certa, era stato lì dentro.
In questa cella mi facevano compagnia tre detenuti: uno, perché aveva accettato che uno sconosciuto per strada trasferisse credito al suo cellulare pagando di meno; in seguito, con sua sorpresa, era venuto a sapere che l’altro era un cellulare rubato. Aveva gli occhi arrossati e, forse per vergogna, cercava di nasconderli. Gli altri erano due malati di AIDS che chiedevano continuamente di essere liberati perché dovevano mangiare e prendere i medicinali. Le guardie rispondevano loro – lasciandosi scappare risate canzonatorie – di svenire, così li avrebbero portati all’ospedale. Di tanto in tanto, quei due detenuti lamentavano di avere fame e di essere innocenti, dal momento che non avevano commesso alcun reato: li avevano fermati mentre camminavano lungo calle 23 e i loro documenti erano in regola; fosse stato per dei precedenti penali, Fidel Castro, che era stato incarcerato per un reato maggiore, era riuscito perfino a diventare capo del paese. Le guardie li guardavano di traverso e poi osservavano me, come se fossi l’impedimento a dar loro la risposta che meritavano.
Uno dei malati mi disse che era tornato in libertà con l’indulto che era stato concesso in occasione della visita di Papa Francesco. In quel momento capii, e rimasi piuttosto sorpreso, che nella banca dati della polizia sui cittadini, ai malati di AIDS viene aggiunta la malattia come se si trattasse di un dato criminale, proprio come i nazisti facevano con gli ebrei. Allora mi è venuto in mente che anche per i malati di cuore, per i diabetici, tra tanti altri mali, si dovrebbero segnalare le rispettive malattie, così in caso di qualche crisi, e se mai si trovassero da soli e in luoghi pubblici, potrebbero essere soccorsi in maniera più efficace; poi ho pensato che un atteggiamento del genere sarebbe troppo nobile per il regime.
Una volta entrato in cella, ufficialmente in arresto, ho avuto l’occasione di conversare con un giovane che si trovava nella cella attigua e che da diversi giorni era stato piantato lì perché, a quanto diceva, il suo arresto era ingiusto. Mi aveva sorpreso il fatto che a soli 23 anni fosse il Delegato della Circoscrizione 41, della Zona 8, nel quartiere di Buena Vista, Municipio Playa. Non gli permettevano di telefonare alla Presidentessa della sua Asamblea Municipal affinché reclamasse la sua liberazione. Gli ho suggerito di contattarla attraverso la sua famiglia, perché avrebbe dovuto avere una qualche immunità, o perlomeno, un trattamento più rispettoso, in quanto “eletto” del popolo. È rimasto in silenzio per un po’, a dolersi per ogni dettaglio del suo presente. Era come se qualcosa al suo interno stesse andando in pezzi. Ha detto – con voce spenta – che non aveva mai pensato che si commettessero tali soprusi. Gli ho raccontato il caso della Delegata di Las Tunas che, quando aveva scoperto la corruzione del regime totalitario e la manipolazione dei principi, etica e decoro, aveva rinunciato all’incarico ed era passata alle fila dell’opposizione politica, e infine, in seguito a un macabro piano della polizia politica, era stata brutalmente attaccata a colpi di machete, aveva perso parte di un braccio e riportato gravi lesioni al sistema motorio; tutto quanto, con l’intento di distruggere la vita a una cittadina che voleva soltanto essere utile alla sua comunità.
Il giovane mi osservava in silenzio e riuscivo a vedere la sua diffidenza, quell’ingenuità tipica di chi non immagina che la dittatura possa commettere simili atti criminali. Mi ha raccontato, in quelle ore di inerzia che la solitudine delle celle ti dà, di essere un infermiere dell’ospedale pediatrico Marfán, e che prima di comprare il suo cellulare si era recato all’azienda ETECSA e aveva chiesto se il telefono fosse in qualche lista nera, al che avevano risposto negativamente. Poi, si era venuti a sapere che invece lo era, e lui era in arresto per un crimine che, come assicurava, non aveva commesso.
Ho trascorso così la mia notte di prigionia “giustificata”, come mi hanno detto, perché qualcuno mi aveva accusato, ancora una volta, di “violazione di domicilio”, lo stesso copione iniziato una volta aperto il mio blog nel 2008, e con il quale avevano concluso incarcerandomi nel febbraio del 2013. Ma poi era successo qualcosa di strano: credo che la persona che in diverse occasioni avevano usato contro di me, questa volta non si fosse prestata allo stesso sporco lavoro, e i poliziotti erano stati costretti a cambiare il reato, adducendo il “furto con scasso”. Quel che è certo è che quando sono stato arrestato, la mia Condizionale era già stata revocata e dal Tribunale, una volta trovatomi lì, sono stato portato in prigione; ma qualcosa nel loro macabro piano è andato storto. All’improvviso, non avevano di che accusarmi e hanno desistito.
Le Dame in Bianco sono state convocate per accompagnarmi in Tribunale, un modo per dire alla dittatura che io non ero solo. Il mio arresto aveva iniziato a sollevare un’onda mediatica che il regime di questi tempi non ama, tempi in cui, più che mai, prova a mostrare una maschera da agnello e a nascondere le sue fauci di vecchia volpe. Così hanno deciso di rinunciare alla manovra, almeno per ora.
Questo è il prezzo da pagare per essere parte della dissidenza interna di una tirannia che, alla più piccola mossa, ti minaccia e mette in atto un piano sinistro per sbatterti in galera. Ancor più se si è parte del Foro per i Diritti e le Libertà, che invita a manifestare con l’etichetta #todosmarchamos, e che è diventata la spina più concreta e dolorosa nella gola del potere assoluto, ogni domenica dopo la messa nella chiesa Santa Rita e l’incontro al parco Gandhi, e che si dirige in silenzio verso la calle 3° e 26°, a Miramar, scontrandosi ogni domenica con l’operativo organizzato dal governo per arrestare i partecipanti.
E nonostante tutto il dolore che il regime infligge agli attivisti politici insieme ai familiari, per il semplice fatto di pensare in modo diverso, di esigere i propri bisogni di libertà e democrazia, nonostante si commettano tutte queste ingiustizie contro gli oppositori, ci sentiamo soddisfatti perché non c’è ragione più urgente, necessaria e nobile che difendere i diritti individuali che rispondono al clamore di un popolo che è stato sacrificato e ingannato per più di mezzo secolo.
Ángel Santiesteban-Prats
(da Los hijos que nadie quiso, 16 novembre 2015)
Traduzione di Silvia Bertoli