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Angstbar. EXIT finale  
Per una lettura di Grytzko Mascioni. 6
Edward Hopper,
Edward Hopper, 'New York Movie', 1939 
10 Novembre 2015
 

21

 

 

La poesia è formata da 53 versi di lunghezza irregolare e solo i primi quattro presentano rime baciate.

Sono presenti nel testo diversi enjambement che spezzano il ritmo dei versi rendondo più impegnativa la lettura della poesia, anche a causa della scarsa punteggiatura.

È presente nel testo un francesismo che viene scritto in corsivetto (maquillage) e alcuni termini sono inusuali, aulici.

Nel componimento si possono individuare: il desiderio di vita; la consapevolezza del protagonista nell’osservare senza menzogne la propria malattia (la scabra verità); la visione della vita come dolce e contraddittoria, degna di rimpianto, ma destinata a sprofondare in un vortice infernale e, infine, l’inconsistenza dello scorrere del tempo umano che si dissolve nell’eternità.

Alcune visioni di vita marina, malinconiche ma dolci, altre più drammatiche lo sprofondano di nuovo, insieme a una messe di ricordi, nella malattia e nell’idea di morte dalle quali come un delfino irretito non può più liberarsi. Le numerose figure retoriche utilizzate contribuiscono ad accentuare questa consapevolezza della fine ormai vicina, le immagini presenti riconducono infatti quasi sempre al dolore o al rimpianto (ad es. “meste cantilene”, “sbocco di sangue che si aggruma sulle dita”, “vortice dantesco”, “funi funeste del rimpianto”, “delfino caduto nella rete che lo sfiata”, “soffio d’inferno che declama il senso dell’eterno nonsenso”). L’enumerazione iniziale (“la distesa corrosa, la valle delle lacrime, il sentiero che batto da straniero”) e il climax ascendente finale (“l’ieri l’oggi il domani in dissolvenza”) stanno ad indicare la vita passata presente e futura del protagonista e sottolineano apertamente la consapevolezza della vita che volge ormai al termine.

 

 

Guardare in faccia senza occhiali rosa

la distesa corrosa,

la valle delle lacrime, il sentiero

che batto da straniero…

Cosa da poco invero non è stata

mi dico appollaiato a capo chino

sulla tradita mescita del bar,

il rifiuto del bere che celava

la scabra verità che crocifigge

la mimesi di un sogno, il maquillage

che ne indora le rughe.

Dirla potresti in albagia conquista:

per quanto il premio smagri in lume fioco

che appena disvelato già vacilla

alla turbata vista dell’abisso

- dove sguazza nel fondo, a lesso nel suo liquido

reame

il pesce dall’esistere – che accora

il pescatore sporto

al gurgite di spume

che chiamano a sponsali senza fine

la sua barca veliera,

la sua voglia corsara.

 

Se premo i pugni sopra gli occhi stanchi

vedo al di là del mare e delle nuvole

che argentano l’azzurro, la scogliera

delle sirene,

odo il sussurro lene, le meste cantilene nel fragore

della risacca che seduce e rode

la fradicia carena, la memoria,

in un alito caldo di libeccio.

Baci e coltelli, innamorati abbracci

e fughe nel deserto del catrame

urbano, nello squarcio di frontiere

foriere dello sbocco

di sangue che si aggruma sulle dita…

Ma un vortice dantesco

sprofonda il bar nel chiaroscuro dove

pavido ancora temporeggio, avvolto

dalle funi funeste del rimpianto.

E il mio respiro è quello di un delfino

caduto nella rete che lo sfiata,

che lo strascica al seno matronale

della Terra dea-madre, principesco

residuo della gloria del paredro

che corse da puledro dissennato

sui prati verdi che tramuta in grigio

lo spirare di un gelido maestrale.

Soffio d’inferno che declama il senso

dell’eterno nonsenso che raggriccia

l’ieri l’oggi il domani in dissolvenza

sullo schermo abbuiato dell’astrale

inconsistenza dell’eternità

 

 

NOTE

vv. 2-4 La distesa …che batto da straniero: Enumerazione che sta ad indicare la sua vita: il passato, il presente e il futuro.

v. 6 Capo chino: Allitterazione

v. 7 Mescita: Bottega in cui si servono al banco vino, liquori e altre bevande.

v. 10 Mimesi: Nella filosofia platonica, il rapporto che intercorre fra le cose del mondo sensibile e le idee, nel senso che le prime sono imitazioni di queste; imitazione. Maquillage: Insieme di cosmetici per il trucco (francesismo).

v. 12 Albagia: Superbia, presunzione dovuta ad alta stima di sé stessi.

vv. 16-17 Liquido/reame: Enjambement.

v. 18 Accora: Addolora vivamente. Il pesce…/il pescatore…: Anafora.

v. 20 Gurgite: Gorgo.

v. 21 Sponsali: Promessa solenne di future nozze; cerimonia nuziale, il matrimonio.

vv. 22-23 La sua: Anafora che segna il desiderio dell’autore di andare libero, senza vincoli.

v. 28 Lene: Dolce, soave, in rima interna con cantilene.

v. 30 Carena: Sineddoche per barca.

v. 31 Libeccio: È uno dei venti.

vv. 35-36 Sbocco/di sangue: Enjambement. L’andare a capo dopo sbocco dà l’idea del sangue che gocciola. Sbocco di sangue che si aggruma sulle dita: Allitterazione. La ripetizione della “s” crea un sibilo che da l’idea del sangue che scorre.

v. 40 Funi funeste: Allitterazione che sottolinea quanto i ricordi e i rimpianti avvolgano l’autore.

v. 45 Paredro: termine greco che indica colui che assiste o accompagna.

v. 48 Gelido maestrale: vento freddo.

vv. 49-50 Senso/…non senso: quasi un gioco di parole

v. 51 L’ieri l’oggi il domani: Climax. Questo climax, come l’enumerazione iniziale, indica il passato, il presente e il futuro.

 

*** *** ***

 

 

22

 

 

In questa poesia viene descritta con estrema efficacia la forte sensazione di solitudine che circonda il protagonista, che, anche in questa poesia si identifica con l’autore stesso. Con un triste sarcasmo, il poeta afferma che il vantaggio di camminare su fangosi e scivolosi marciapiedi (le complesse difficoltà della vita? la sua situazione attuale?) sia il fatto di essere da solo, in compagnia della propria malattia, senza più neanche il desiderio di alcool, mentre si perde mentalmente nell’immagine del micro-macro-cosmo di Paracelso.

Constatata, con pungente sofferenza, la sua totale solitudine, si rivolge alla sua ombra che riflette un senso di sconfitta.

Ormai disilluso, colpito a morte dalla vita si sforza di considerarla solo una finzione, una trappola che ci illude di esser vivi e di sapere amare, per poi ricordarci la nostra inevitabile mortalità. È l’ora della partenza, ma l’autore sa che, questa volta, sarà inutile aspettare il suo ritorno.

L’evidenza di alcune espressioni, spostate a fine verso, ci portano a vedere gli effetti fisici del male e, soprattutto, l’esito del viaggio che questa volta sarà senza ritorno.

 

 

Il vantaggio del passo nella mota

del marciapiede sdrucciolo,

caduto il desiderio d’alcohol vini

nella disfatta lontanante imago

dell’irridente macro-micro-cosmo

(beffato Paracelso), è

questa immota

malata povertà d’esser solo

e il gelido sudore

che impiastriccia le mani

e il rèuma acuto,

la fitta che pugnala l’ansimare

del petto scarno (oh, cara

ombra che lascio, zazzera sconvolta,

socchiudo gli occhi agli occhi tuoi

sconfitti). Era siffatta la maldestra vita,

il bluff che a scorno ci incatena all’amo

di chi osa ti amo e all’aria affida

un bacio sulle dita

e ci risiamo.

Ma questa volta

non aspettare

non farò ritorno.

 

 

NOTE:

v. 1 Vantaggio : il vantaggio è la povertà.

Mota: Fango, melma.

v. 2 Si riferisce al marciapiede occupato dal fango; viene detto sdrucciolo e questo aggettivo può essere interpretato in due modi: marciapiede di strada stretta e di forte pendenza che rende l’idea del triste (fango) e difficile (strada in salita) viaggio del poeta; può significare qualcosa che scorre via facilmente, facendo pensare ad un passo veloce.

v. 3 L’autore ha perso, o meglio, gli è stato fatto perdere il desiderio dell’alcool, a lui ora proibito per seri problemi di salute.

vv. 4-5 Il pensiero dell’autore va verso la distrutta immagine (nel testo “imago” dal latino con significato di immagine, figura) che viene definita lontanamente (con significato letterale di qualcosa “che allontana” e in questo contesto si riferisce ad un pensiero che fa deviare la mente dell’autore su altri argomenti) dello sbeffeggiante micro-macro-cosmo di Paracelso.

v. 6 Paracelso: (Einsiedeln 1493 - Salisburgo 1541), medico e filosofo svizzero, studiò prima a Vienna, poi a Ferrara. Viaggiò a lungo in Europa, esercitando la professione medica e diffondendo le sue teorie. Spirito polemico e pungente, Paracelso sfidò le convinzioni mediche della sua epoca, affermando che le malattie sono causate da agenti esterni al corpo e che possono essere contrastate per mezzo si sostanze chimiche.

Le sue conoscenze spaziarono dalla medicina, all’alchimia, alla mineralogia. Criticò le teorie degli “umori” e le terapie a base di salassi e purghe, proponendo al posto di queste ultime rimedi chimici e minerali. Identificò la causa di molte malattie, tra le quali il gozzo e la sifilide, nell’influenza di sostanze e principi presenti nell’atmosfera. Basò molti dei suoi rimedi sul principio che “simile cura simile”, anticipando così le moderne teorie omeopatiche.

Paracelso morì, pare, per un carcinoma al fegato proprio come l’autore. Si ricordi che il fegato fino al Medioevo era ritenuto il centro della vita.

vv. 7-8 Dopo una lunga parentesi ricompare il verbo nel sesto verso, slittando con un enjambement nel settimo. Questa figura retorica allunga l’attesa del lettore facendo quasi dimenticare il soggetto della frase. L’attesa è poi ulteriormente incrementata dalla posizione del verso, spostato totalmente a destra. Da questi versi si capisce che per l’autore l’essere solo è una povertà, la mancanza di qualcosa, o meglio, di qualcuno.

vv. 9-10 Continuazione del complemento oggetto, già presente nei versi 7-8. Si parla di un “gelido sudore che impiastriccia le mani”, qualcosa che dà la sensazione di tensione, forse sudore freddo di paura.

v. 11 Il reuma accennato potrebbe essere un richiamo alla malattia dell’autore o al senso di insano che si avverte nei precedenti versi 12-13. Continua l’elenco di situazioni di malessere che parte da un dolore interiore fino al dolore fisico vero e proprio, “una fitta” che colpisce un petto già “scarno”, qualcosa cioè che sconvolge un individuo già abbattuto. Si apre poi una parentesi con un vocativo che si lega tramite enjambement al verso successivo.

vv. 14-16 Questa lunga parentesi si presenta come elemento estraneo al discorso in atto, grazie all’uso delle parentesi e del carattere corsivo. Si apre con un vocativo oh cara” che lascerebbe pensare ad un messaggio diretto verso una donna cara al poeta. Basta passare al verso successivo per capire che l’oggetto del discorso è l’ombra dell’autore, estrema compagna nella solitudine, descritta come quasi se l’autore vedesse in questa se stesso: “una zazzera sconvolta” quale è anch’esso in questi momenti confusi, un essere dagli “occhi sconfitti” quanto lo possono essere quelli di una persona a cui è stata preannunciata la morte. Chiusa la parentesi si riprende con una considerazione sulla vita, probabilmente legata alle sensazioni dei versi 7-13. La vita viene vista come un essere privo di destrezza, quindi fragile e debole.

vv. 17-20 Si riallaccia al verso precedente, dove iniziava la descrizione della vita (maldestra). Questa per l’autore è un bluff, quasi una trappola che colpisce, che cattura umiliato chi si è lasciato trasportare dai sentimenti d’amore. In questi versi compaiono le uniche rime della poesia (all’amo, verso 17, ti amo verso 18 e ci risiamo al verso 20) che, contrariamente agli espedienti usati precedentemente dall’autore, rendono più veloce e scorrevole la lettura grazie anche alla disposizione dei versi che dal 17 al 20 sono posti in ordine decrescente di lunghezza. In questi versi sembrano mischiarsi ai pensieri anche dei ricordi dell’autore che risulta melanconico, quasi colpito dal pensiero di un amore perduto.

vv. 21-23 Lo spostamento a destra del primo verso e la brevità dei due a seguire ristabilisce un ritmo più lento della poesia che era andato velocizzandosi nei versi precedenti. Lo spazio lasciato sembra una pausa che l’autore prende rendendosi conto di essersi lasciato trasportare dal pensiero.

 

*** *** ***

 

 

24

 

 

Questo testo è stato scritto, forse, quando, dopo un momento di speranza in cui l’autore sperava di poter dominare la sua malattia, il male si è di nuovo manifestato con tutta la sua forza inesorabile.

Il dolore, quasi come per vendetta, logora e mette allo scoperto i nervi già messi a dura prova da tempo, viene paragonato a una piaga che continua a sanguinare. Neanche il tentativo di allontanarlo ricorrendo all’alcool può aiutare, sarebbe soltanto una fuga temporanea. La realtà scorbutica è questa. La metafora del “bar chiuso” e del “servizio sospeso” che accompagna tutte le liriche di Angstbar, qui è evidenziata dalla scrittura in corsivo; l’epilogo non sarà che il bianco muro di una stanza d’ospedale, ultima tappa di una corsa senza fiato verso il nulla. Il tutto che diviene nulla.

Al centro della poesia una frase nominale: la storia del mondo racchiusa tra il ricordo di un fiore e la bufera che toglie ogni ardimento.

E poi con tono quasi narrativo l’autore introduce il danno più terribile per un poeta, come ricordava D’Annunzio, cioè l’impossibilità di scrivere, che diventa silenzio totale. “E l’agrafia”, la già stentata e sconnessa traccia di scrittura che “raccoglieva torsoli di povere parole” appena appena flebilmente corrispondenti al bisogno imperioso di dire, è diventata un silenzio spaventato.

Perduta la parola poetica, l’uomo è ora un animale braccato, ferito che si sente impazzire nell’incapacità muta e straziante di una agonia volgare che ormai lo porta lontano dal rumore del mondo. Sola campeggia davanti a lui la scritta “EXIT” che come in ogni teatro che si rispetti indica l’uscita finale dalla scena della vita.

I versi endecasillabi sciolti si alternano nelle due strofe a settenari semplici o doppi, ci sono anche un quinario isolato al verso 18 e un quadrisillabo al verso 28, gli accenti hanno cadenze regolari.

I termini sono ricercati, quasi espressionistici; le assonanze, le allitterazioni, le consonanti dure, le doppie rendono con i loro suoni alcuni versi affilati e taglienti (“trita e smaglia la trama scorticata”, “scritta che brilla nella notte illune”, altri versi hanno il tono lento, quasi narrativo, della sofferenza e dell’abbandono.

 

 

Il dolore placato non scompare,

trita e smaglia la trama scorticata

dei nervi tesi, nei rimossi umori

rimugina vendette. Berci sopra

era solo la fuga, l’insalùbre

impiastro che s’agglutina alla piaga

che nella carne viva, a un fremito d’allarme,

ritorna a sanguinare. Tale e quale

la vista malmostosa del reale.

Il servizio è sospeso, il bar è chiuso:

l’epilogo non è che un calcinato

muro bianco-ospedale che t’assale

nel trafelato esistere del tutto

che corre vorticoso a farsi nulla.

Il mondo e la sua storia, la banale

ricordanza del fiore e la bufera

che ne abbatte l’ardire.

 

E l’agrafia,

sconnesso accenno d’esile campare

che raccoglieva gemiti e rimorsi

nei torsoli di povere parole

all’urgere indomato

di un’espressa paura,

già si converte in un silenzio attonito

calato sul sussulto d’animale

che straluna efferata la ventura

di un’agonia triviale. Al sonito mondano

fatta sorda

nel rosseggiare della cubitale

scritta che brilla nella notte illune

sul proscenio terreno, EXIT finale

 

Nizza, luglio-settembre 2002

 

 

NOTE:

v. 6 “L’insalubre impiastro che si agglutina alla piaga” è una metafora per dire che l’alcool funge da rimedio insano e temporaneo a una piaga che può chiudersi solo temporaneamente ma che alla nuova manifestazione della malattia è pronta riaprirsi con violenza.

v. 9 Malmostosa: È un termine lombardo che significa scorbutica.

v. 18 Agrafia: Termine medico che indica la perdita morbosa della facoltà di scrivere.

v. 26 Straluna: Sconvolge, stravolge.

v. 30 Illune: Non rischiarato dalla luna; aggettivo che come il verbo del verso 26, deriva dal termine luna.

v. 31 Exit: Indicativo presente III persona singolare del verbo exeo, indica l’uscita nei teatri.

La scritta campeggia nel buio evidenziata dal suono forte e ripetuto delle consonanti doppie del verso 30.

 

 

Per una lettura di Grytzko Mascioni

6SEGUE...

 

 

Cristina Pedrana e Gianluca Moiser (a cura di)

Tanto per dire non è stato invano

I ragazzi del Liceo Donegani di Sondrio leggono Grytzko Mascioni

Associazione “Grytzko Mascioni”, 2007, pagg. 188


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