Un certo cinema, ma anche una certa letteratura popolare (non sono uno specialista, ma vi rientra, credo, la cosiddetta “letteratura pulp”) promettono allo spettatore o al lettore, protetti dalla poltrona di un cinema o dal loro habitat, il brivido di inoltrarsi nei territori dell’illecito, del crimine e della perversione, che sono supposti suscitare in lui un misto di fascino e di ripugnanza.
Gli autori del film Suburra, diretto da Stefano Sollima, hanno avuto l’idea di raccontare in questa chiave l’ambiente della criminalità romana e para-romana (si considera in particolare il territorio di Ostia) e di quei settori della politica nazionale e anche, a quanto è mostrato, della Chiesa cattolica, collusi con essa.
Suburra non è insomma un tradizionale film di denuncia, che voglia darci una sensazione di verità, di esattezza quasi documentaristica rispetto ai fatti e ai personaggi raccontati.
Trasfigurata sotto il segno orribile e grandioso del Male, la Roma del film è abitata da fantasmagorici locali notturni, da incendi infernali, da periferie sordide; è battuta da una pioggia violenta che fa pensare a un flagello divino.
Il film si pone deliberatamente al di fuori del campo della poesia o, se preferite, dell’arte. Perché, se l’oggetto privilegiato dell’indagine artistica, sono i sentimenti, l’interiorità dell’uomo, qui i personaggi sono tutti a una dimensione, senza spessore, maschere riconoscibili al primo colpo d’occhio: dal politico che si dà un’aria perbene ed è invece corrotto fino al midollo, al boss truce e violento come una belva; a quello, altrettanto o più pericoloso, ma gelido, all’apparenza sempre calmo; dal giovane sprovveduto che si addentra nel crimine con un’arroganza da incosciente, al signorino di buona famiglia che si dimostra subito un infido vigliacco.
Ciò premesso, il film ha alcune notevoli qualità. In primo luogo la tensione narrativa, quella per cui il racconto trascina la nostra attenzione fino al suo termine, senza mai stancarci. Poi, le maschere sono incise tutte con precisione, con abilità, grazie anche alla bravura degli attori fra i quali spiccano Favino e Germano, che ai loro personaggi, pur nei loro limiti drammaturgici, riescono a conferire alcune note più sottili.
Ma la qualità che a me più interessa, è nel messaggio (per alcuni: il famigerato messaggio!) che il film, magari senza volerlo, riesce a trasmettere con persuasività.
Questo universo, in cui tutti i personaggi, per concludere affari, o per risolvere problemi molto spinosi, a volte di vita o di morte, si affidano automaticamente alla corruzione, come se la Legge nemmeno esistesse; e si ritrovano soli e disperati in una giungla dove prevale il più forte, fa nascere almeno negli spettatori, il rimpianto della legalità: un valore che risulta così magnificato con più efficacia di una predica diretta a questo scopo.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 8 novembre 2015)