La figura di El Greco appare capitale nella storia dell’arte europea, riferimento imprescindibile per chiunque voglia cogliere una delle voci più alte della pittura universale, eppure nulla è nato da lui, non una scuola, non uno stile, e le sue folgoranti intuizioni visive nascono e muoiono con lui.
Nemmeno si può dire però che fosse ignorato o misconosciuto in vita, a Roma e a Toledo. Lavorò per committenze importanti, dovette addirittura organizzare una bottega per tener dietro alle commissioni e seppe orgogliosamente difendere il proprio lavoro dalle esigenze iconografiche o esecutive che non condivideva.
Colto, al corrente delle novità letterarie e figurative del suo tempo, gentiluomo nell’arte e nella quotidianità, era tuttavia del tutto consapevole di percorrere una strada solitaria e impervia dove tutte le esperienze precedenti – Bisanzio, Venezia, Roma – si sarebbero fuse in un gran fuoco spirituale, in visioni enigmatiche e conturbanti.
Soltanto la religiosità accanita e assoluta dell’ambiente toledano avrebbe potuto penetrare in questo mondo incandescente di figure e di colori e quella che potrebbe apparire una situazione di marginalità, di periferia culturale e geografica, per Greco si rivelò invece la circostanza esatta del suo destino.
Domenikos Theotokopoulos detto El Greco fu celebrato a Toledo, a Madrid e in Grecia nel 2014 in occasione dei 400 anni dalla morte del pittore con grandi mostre.
Era nato nel 1541 a Candia, capitale di Creta a quel tempo possesso della Repubblica di Venezia. Ci vuole coraggio e intelligenza critica per riprendere il tema, rilanciandolo sui quasi dieci anni che da giovane trascorse in Italia dal 1567 al 1576 affinando la formazione e attingendo al grande atelier che era l’Italia. Questo l’intento della mostra "El Greco in Italia. Metamorfosi di un genio", Casa dei Carraresi di Treviso (fino al 10 aprile 2016), a cura di Lionello Puppi, tra i massimi studiosi della civiltà veneta tra Quattrocento e Settecento, che in mostra focalizza la rilevanza della stagione italiana e in un denso saggio in catalogo (Skira) mostra i fili che legano il pittore a Tiziano, Tintotetto, Veronese, Jacopo Bassano e Parmigianino, disponendo a diretto contatto le loro opere con quelle di El Greco.
Creta era la terra originaria del suo corpo e della sua anima. L’eredità di Bisanzio viveva ancora come colore, come tradizione, come certezza che nulla poteva davvero cambiare nel destino spirituale della creatura umana. L’oro delle icone per Domenikos Theotokòpulos non era mera sopravvivenza di un tempo perduto, di una lingua morta. Era l’oro dello Spirito e dell’illuminazione.
La mostra si apre con la tavola di San Demetrio (1555-6), un capo d’opera dove le radici bizantine dell’imperturbabile icona sono ben evidenti e stanno a indicare il termine eikon, che si fonda, come da tradizione, sulla stessa natura icona del Divino, ancor più rilevante nell’Altarolo dell’Estense di Modena per un Miles Christi (1567/1568).
Il polittico di Modena, di cui l’avvincete Annunciazione fa parte, è una delle prime opere del giovane pittore greco. Il trittico rivela la personalità del pittore già in piena formazione verso un suo personalissimo modo di vedere e di dipingere figure e paesaggio, pur negli accenti manieristici e nella tradizione del “tocco” tizianesco.
Nell’Annunciazione il senso del racconto è invertito rispetto all’iconografia tradizionale: l’angelo proviene da destra e la Vergine riceve l’annuncio vicino al leggio, a sinistra, secondo un ritmo circolare. Sullo sfondo si apre il rettangolo luminoso di una porta, mentre nella lunetta superiore, tra accordi cromatici delle nuvole, si affacciano gli angeli a osservare l’avvenimento.
La scena è incentrata attorno alla colomba, simbolo dello Spirito Santo, che con i suoi raggi sembra illuminare la figura della Vergine e dell’angelo.
I colori delle figure dei protagonisti risplendono, come tessere di un mosaico, con i loro toni caldi, sullo sfondo blu della parete di fondo e azzurro-grigio della parete di fianco, e sul disegno bianco, ocra e azzurro del pavimento: una serie di accostamenti che vedono il gioco armonioso del giallo, del rosa e del rosso nella figura della Vergine, accanto all’ocra caldo del tavolo, e dall’arancio della veste dell’angelo, accanto al blu metallico delle ali.
La tecnica è realizzata attraverso una serie di pennellate nervose, i segni di una scrittura quasi stenografica, che sembrano agitare le pieghe del velo e dell’abito della Madonna e la veste dell’angelo, sospeso nell’aria, su una nuvola trasparente.
Nella parte centrale del retro del Polittico di Modena El Greco dipinge la scena di Cristo che incorona un santo. Il gruppo principale della composizione è in alto, circondato da Angeli che reggono i simboli della Passione; mentre in basso è raffigurato il Giudizio Universale con un mostro marino che simboleggia l’inferno, che inghiotte i dannati (secondo un’iconografia tipica dei pittori del monte Athos).
Nel Polittico di Ferrara (Fondazione Cassa di Risparmio, in deposito presso la Pinacoteca Nazionale della città) sono raffigurate Crocefissione, Cristo davanti a Pilato, Orazione nell’orto, Lavanda dei piedi, databile 1568/1569. Anche in quest’opera El Greco ha ancora il segno cromatico delle origini, ma ben più aderente all’influenza della civiltà lagunare. Basta questo polittico per comprendere la rilevanza che ebbe per il pittore l’incontro con Tiziano, Tintoretto e Jacopo Bassano.
Verso Tiziano si sentiva discepolo per ammirazione e nella devota comprensione, perché nessun artista a Venezia poteva prescindere dal grande vecchio e sublime maestro. Ma forse, più di Tiziano, affine al Greco era Tintoretto che nella sfolgorante tessitura del colore veneto aveva infiltrato il disagio michelangiolesco, le sue frenesie costruttive, i suoi dubbi d’arte e di vita. E infatti a Michelangelo guardò, più a chiunque altro, quando fu a Roma. Perché al di là delle differenze, al di là delle “maniere”, in Michelangelo El Greco riconobbe un’anima simile alla sua.
La mostra e il percorso che ne fa sapientemente il curatore Lionello Puppi dimostra con le opere di Venezia e di Roma – o immediatamente successive, come rechino l’impronta gagliarda della lezione italiana, di immersioni nella più splendida civiltà dell’immagine che mondo abbia conosciuto. Il colore vivido, squillante, le forme robuste, statuarie a volte, lo spazio misurato della prospettiva rinascimentale, oppure consapevolmente violentato dall’energia manieristica. Nessun pittore di cultura bizantina, in Occidente o in Oriente, seppe mai assimilare e riprodurre come il Greco giovane i grandi esempi dell’arte europea, ovvero italiana del Cinquecento.
È la fede, la visionarietà del cristiano d’Oriente, che nella storia del mondo, nella sua storia personale, altro non vede che il riflesso della Vera Storia, che si numera in Eoni, in ere divine, nella quale alla fine tutto ritorna al Principio.
La scoperta di El Greco fu molto tarda e un posto eminente ebbero Delacroix e Manet: la mostra si chiude con una sezione che esalta la rinnovata presenza di El Greco nel XX secolo, e l’incredibile influenza che ebbe su Picasso e Bacon. Il pittore malagueño era rimasto folgorato dalla Sepoltura del Conte di Orgaz e si vede il maestoso cartone (1957) tratto da Les Demoiselles d’Avignon nato dalla collaborazione con Nelson Rockfeller parte di 19 arazzi omaggio al maestro. Per Bacon il tema d’ispirazione si rinviene in due Crocifissioni dove la distorsione delle figure, la loro drammaticità, i colori sono eredi di El Greco.
Il Greco di Toledo, al momento della morte, è da tempo altrove, poiché, come avrebbe scritto Fray Hortensio Paravicino, «Aveva raggiunto l’eternità oltre la morte».
Maria Paola Forlani