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Angstbar. Teddy di sguincio nello specchio osserva  
Per una lettura di Grytzko Mascioni. 4
Foto Antonella Castracane
Foto Antonella Castracane 
01 Novembre 2015
 

7

 

 

La poesia è composta da un'unica strofa di endecasillabi, settenari e quinari sciolti. Il ritmo si presenta abbastanza scorrevole: anche grazie ad una punteggiatura essenziale la poesia sembra, infatti, una prosa versificata, cioè sembra un testo prosastico, inserito in un determinato schema metrico. Troviamo una rima sola (caduto-sperduto), nei versi 19 e 20, mentre prevalgono richiami di suoni come assonanze, consonanze e allitterazioni. Esempi di queste ultime nei versi 1 (“sguincio nello specchio osserva” con la ripetizione della “s” che suggerisce l'idea di qualcosa di nascosto) e 2 (“tremulo pallore che scolora”: con “r”, “o”, “l”, suoni che danno una sensazione di tremore e paura).

In un testo che privilegia l'ipotassi, numerosissimi, sono gli enjambement (versi 1-2, 2-3, 3-4) che contribuiscono a creare una situazione di attesa per ciò che verrà nei versi successivi. Numerose sono anche le metafore con cui Mascioni descrive la situazione del protagonista affranto.

Il poeta parla molto in prima persona e presenta uno stato di dolore, solitudine, quasi di morte. Il componimento si apre con l'immagine del barista Teddy che guarda il protagonista di sbieco attraverso lo specchio e lo vede sudato, tremolante, pallido, appoggiato al bancone del bar, dove sembra reggersi con fatica (“irresoluta”) forse perché vorrebbe ancora bere. Egli, con la vista liberata dalla lucidità, inizia a fissare un'impura visuale (“immondo panorama”) sulla quale concentra le sue attenzioni.

Quest'impura visuale è una donna, probabilmente una prostituta, presentata come scheletrica, e forse il poeta vuol dire che la donna manca di passione, non di carne fisica. Questa donna ha labbra oscene (ipallage), una scollatura cosparsa con una cipria “di morte”. Ritroviamo qui un elemento della poesia barocca: l'immagine della morte con fattezze umane, in questo caso di donna.

Questa immagine sembra ricordare certe figure femminili deformate di Egon Schiele o di Toulouse-Lautrec.

Ma basta solo un suo movimento (“un fruscio appena”) per creare un abbraccio privo di qualsiasi sentimento, un abbraccio falso, solo ed esclusivamente fisico. Quest'abbraccio porterà sicuramente a un amore momentaneo (un rapporto sessuale, ma non sentimentale). In questo verso si può scorgere forse un richiamo all'ultima cena e al tradimento.

Subito dopo Mascioni parla dell'estraniato amplesso, quello che è causato da un momento avventato, da una mancanza di riflessione. Negli ultimi versi il poeta forse vuole esprimere una decadenza morale, una degradazione che richiama l'irrazionalità dell'amplesso. Quest'ultimo infatti è veloce, senza pause, e in questi versi l'autore lo paragona a un rotolarsi nel fango (“brago”) ove si ritrova sperduto e destinato a morire: la donna è la morte!

Nella poesia ricorre dunque l'enfasi del tema della morte, del lugubre. Infatti troviamo i termini “morte” nel verso 11 associato al trucco della donna, che implica la finzione dell'amore che si rivela fisico e non passionale, definito come “perituro”, cioè destinato a morire nel suo fango e nella sua gioia passeggera (verso 22: sballo caduco).

L'ultima parte, scritta tra parentesi e in corsivo, sembra essere una meditazione sull’allontanamento e sul disfacimento delle cose.

La piuma diventa l'anima che nel momento della morte si stacca completamente dal corpo e vola in cielo. L'anima “ignora la coerenza” poiché essa è presente in cielo ma distante dal corpo. In quel momento di “assoluta assenza” il poeta è spiritualmente assente nella vita terrena. Per lui la luce della vita diventa via via più pallida mentre si allontana verso il cielo.

 

 

Teddy di sguincio nello specchio osserva

il tremulo pallore che scolora

la mia fronte sudata. Indi sbandiera

lo straccio sul lucore del bancone

che regge la fatica irresoluta

dell'antico alcolista, denudata

la vista sull'immondo panorama

che dirama la perfida ossatura

di una madama scheletrita, rosse

le labbra oscene, il decolleté poudré

di una cipria di morte.

 

Un fruscio appena,

e eccola seduta nell'offerta

del nulla del suo abbraccio, malasorte

di una camera a ore, ultima cena.

Ma era già li, il servente paracleto,

nunzio del solo amplesso garantito

dall' inconsulto istante

sepolto nell'immemore esperienza

che mi gettò nel brago ove caduto

da zero a zero mi trovai sperduto

nel mediano intervallo perituro,

sballo caduco.

 

(Piuma che vola e ignora la coerenza

che configura

l'assoluta assenza,

la pallida deriva della luce

nel cielo dove sfuma

ogni parvenza).

 

 

NOTE:

v. 1 Sguincio: Sbieco.

v. 4 Lucore: voce dotta che significa splendore.

v. 5 Irresoluta: Letteralmente perplessa, priva di decisione; si riferisce al termine “fatica, ma per ipallage al protagonista.

v. 6 Antico Alcolista: Un alcolista di vecchia data oppure per indicare che questo suo vizio deve diventare antico, cioè lo deve dimenticare. Denudata: Spogliata completamente, come se avesse perso ogni speranza e non trovasse più nulla di positivo nella vita, in questa situazione è infatti solo: è lui soltanto davanti alla morte.

v. 8 Dirama: Diffonde. Perfida ossatura… scheletrita: È presente un'idea di scarnificazione che avvicina a quella di morte.

vv. 9-10 Rosse labbra oscene: Sono attribuite alla morte/malattia, solitamente le labbra rosse sono simbolo di salute, ma perché riferite a lei diventano oscene, ripudiate per la loro bruttezza.

v. 16 Paracleto: “consolatore. Termine di solito riferito allo Spirito Santo.

v. 17 Inconsulto: Avventato, che manca di riflessione.

v. 19 Brago: Fango. Termine utilizzato anche da Dante nel VII Canto dell'Inferno. Caduco: effimero, di breve durata. Da notare la figura etimologica caduto-caduco.

v. 26 Assoluta assenza: Si può notare l'allitterazione della lettera “s che accentua il fatto che l'assenza è totale e ciò non può essere cambiato.

vv. 27-28 Sfuma ogni parvenza: L’espressione può essere una metafora per indicare la morte perché qui si intende il tramonto;il momento in cui finisce il giorno e in questo caso la vita.

 

*** *** ***

 

 

8

 

 

Questo testo probabilmente svolge la “funzione di spartiacque” fra le poesie, in cui il protagonista beve ancora, o almeno pensa di trovare nell’alcool un aiuto, e quelle in cui si intuisce che abbia smesso. In questi versi, ma anche in altri appartenenti alla medesima sezione, l’autore esprime la propria riflessione sulla vita, sulla degradazione di essa operata dall’alcool e quindi matura la decisione di smettere di bere.

Il componimento potrebbe essere diviso in tre parti che corrispondono a tre nuclei tematici.

Nella prima, corrispondente alla parte iniziale della poesia (Immaginario… clona), l’autore mette in evidenza gli effetti dell’alcool che offusca la mente dell’ubriaco e lo fa sentire coraggioso, in grado di fare qualunque cosa. Ma è solo un’amara illusione e una percezione non realistica della realtà.

Così Mascioni inserisce termini e figure che rendono un’idea di illusorio, di non vero (immaginario, neon di paradiso, artificio, figuranti nel teatro, abito di nebbia, invisibile un sarto), di vago e di sfumato (mente ammollata, ottuse, scancellava, lambiscono, cieco).

Nella seconda parte, quella centrale del componimento (E non lo sa… non lo vedi?), l’accento si sposta sulla svalutazione della vita, che viene appunto svenduta per un sorso di vino mercuriale. Egli in un momento di lucidità commenta a voce alta questa sua constatazione col suo amico barista Teddy (personaggio ricorrente, insieme alla figura del beone), ricevendone una risposta scherzosa, che nasconde una visione opposta.

Infine, nella terza e ultima parte (ciò che vedo… finirà…), il protagonista risponde a Teddy con una metafora sulla vita che, avendo abbandonato l’alcool, ha appena riscoperto ma che presto finirà.

La vita viene paragonata a un fiume nel quale è trascinato (vasto fiume che m’investe) attraverso luoghi felici, che potrebbero essere riferimenti strettamente autobiografici rispetto ai luoghi d’origine del poeta: la Valtellina, la Svizzera (odora di pascoli di monti e d’aria sana). Qui egli vede spegnersi il suo desiderio di vivere nella morte, che è l’ultimo pensiero (ratio estrema) del viandante (che potrebbe essere sempre il poeta stesso, che, infatti, ha sempre manifestato una ansiosa e quasi frenetica brama di vivere).

La poesia si conclude con la consapevolezza del protagonista-poeta dell’inesorabile fine della vita, tuttavia attraverso i puntini di sospensione si lascia aperta la questione.

È interessante notare il plurilinguismo dell’autore capace di accostare termini che appartengono a un registro linguistico maggiormente elevato (traluceva, schiere ignave, ratio extrema,…) a termini tecnico-specifici (barman, neon, vino mercuriale,…) e a parole del linguaggio basso, popolare (balle,…).

Mascioni in questa poesia non ha utilizzato molte figure retoriche; di rilevanza sono solo la già citata metafora del fiume, e alcune figure foniche, come le rime interne leone-beone, liquore-cuore, che enfatizzano il concetto espresso dai termini antitetici.

I versi sono sciolti contengono enjambements che rendono sì la lettura meno spedita, ma sottolineano i punti salienti.

Anche la scelta dei tempi verbali è significativa: si può notare, infatti, che se nella prima parte del componimento compare l’imperfetto, nella seconda si passa al presente. Con l’imperfetto il poeta ha voluto esprimere la condizione che vuole abbandonare e in un certo senso passata. Al contrario usa il presente nell’esprimere la sua riflessione sulla vita, che conclude con un futuro: finirà…

 

 

Immaginario traluceva a scatti

un neon di paradiso

all’artificio

della mente ammollata dal liquore

che gli irrorava un cuore da leone. Ma era solo

un beone: e il beneficio

che ottuse il punteruolo del pensiero,

esteso ai figuranti nel teatro

dell’universo mondo, inveleniva

il gusto delle cose, scancellava

il rilievo di monti e di riviere

che schiere ignave in marcia

processionale

lambiscono nell’abito di nebbia

che invisibile un sarto confeziona

a chi cieco si clona: – E non lo sa

(quasi, ora grido), vecchio Teddy!, e ignora

la sbronza generale,

la svendita globale della vita

per un sorso di vino mercuriale… –

Ma il barman preso dalle sue bottiglie

diligentemente spolvera e riassetta

volgendomi le spalle – Quante balle

racconti questa sera – mi farfuglia.

Stare a secco fa male, non lo vedi?–

ciò che vedo è ben altro: fatto scaltro,

è un vasto fiume che m’investe e odora

di pascoli di monti e d’aria sana,

che mi porta con sé dove rastrema

il corso all’orizzonte e decolora

la sua brama di esistere nel fioco

crepuscolo che spenge il tardo fuoco

dell’angoscia vitale, ratio estrema

del viatore che sa,

che finirà…

 

 

NOTE:

vv. 1-2 Immaginario… paradiso: Una luce (neon per metonimia) immaginaria passava a scatti e pareva paradisiaca.

vv. 3-5 All’artificio… leone: Il termine artificio potrebbe indicare una finzione e quindi un paradiso artificiale, un’illusione di plastica. Inoltre, nel significato di artificiale influirebbe sul significato di neon che indicherebbe l’insegna del bar. Ques’ultimo inteso appunto come un’illusione di paradiso. Infine artificio legato alla mente, ne rappresenterebbe il suo vaneggiare indebolita a causa dell’alcool. Quest’effetto farebbe sentire l’alcolizzato coraggioso e in grado di fare qualsiasi cosa (gli irrorava un cuore da leone).

vv. 5-7 Ma era solo… pensiero: Qui l’inganno viene ribadito: è solamente un ubriaco. Questo è solo un beneficio momentaneo, infatti l’alcool devasta (ottuse viene da ottundere = devastare) la mente, smussa l’acutezza del pensiero (ottuse il punteruolo del pensiero).

vv. 8-9 Esteso… mondo: Mascioni insiste sulla falsità, la finzione delle cose: il teatro rappresenta qualcosa di non naturale (in altre poesie compare l’immagine del Luna Park) in cui le persone (figuranti) recitano la loro parte ma non è realtà (in ciò si può cogliere un profumo pirandelliano).

vv. 9-11 Inveleniva… riviere: Tutto ciò deturpa il gusto delle cose e affievolisce la percezione della realtà, che non è più nitida, ma diviene un’immagine sfuocata.

vv. 12-14 Che schiere ignave… nebbia: Queste “schiere ignave” rappresentano la viltà di chi non riesce a uscire da questa situazione e continuano a marciare su questa strada senza far nulla. In questo cammino in un’atmosfera spettrale perdono le loro facoltà, la nebbia dà, infatti, l’idea di qualcosa di vago, di sfumato, che si perde ed è rafforzata da lambiscono = sfiorano.

vv. 14-15 Che invisibile… clona: L’invisibile sarto è l’alcool che ci impedisce di vedere. Il termine “clona” potrebbe avere due significati riferendosi nel primo caso allo sdoppiamento della realtà; oppure allo sdoppiamento della persona nel momento della cecità dell’ubriachezza.

vv. 15-19 E non lo sa… mercuriale: Questo è il momento in cui il poeta si rivolge al barista, facendogli notare come ci sia una globale svalutazione della vita che viene “svenduta” anche solo per un bicchiere di vino al bar (mercuriale indica il listino dei prezzi), cioè per cose di poca importanza, ma soprattutto dannose. Anche in altre poesie, come ad esempio nella 18, si ritrova questa idea del vago, delle facoltà che si perdono resa attraverso l’immagine della nebbia.

vv. 20-24 Ma il barman… non lo vedi?: La risposta di Teddy è superficiale, rispetto al discorso del poeta, data senza attenzione mentre sta facendo altro (preso dalle sue bottiglie diligentemente spolvera e riassetta volgendomi le spalle). Egli esprime il suo dissenso scherzosamente con una battuta (stare a secco fa male) che è contraria a quanto vuole esprimere l’autore e, infatti, risponde con la metafora finale.

v. 19 In questa parte l’autore fa notare la visione discordante della vita tra lui, che l’ha maturata con l’esperienza personale, e Teddy, che potrebbe rappresentare la società in generale.

vv. 25-34 Ciò che vedo… finirà: È qui racchiusa la metafora della vita che è come un vasto fiume che investe (al quale quindi non ci si può sottrarre) il poeta e gli fa sentire il profumo dei pascoli alpini e dell’aria sana (in contrapposizione con la dannosità dell’alcool) che lo trascina dove gradualmente l’orizzonte si assottiglia e scolorisce il desiderio di vivere l’ultimo momento dell’angoscia vitale (decolora la sua brama di esistere nel fioco crepuscolo che spenge il tardo fuoco dell’angoscia vitale), che è l’ultimo pensiero del viandante il quale sa che finirà. Il sa, giocando sulla virgola, potrebbe avere due interpretazioni: la prima intendendolo nel significato di essere consapevole della fine della vita; l’altra nel solo e semplice significato di sapere.

v. 34 In quest’ultima parte, inoltre, si può notare una qualche analogia con il Foscolo, nella visione dell’inesorabile corso della vita verso la morte, ma anche nella visione angosciata dell’esistenza umana (carme “Dei sepolcri”). Foscolo non è l’unico autore con il quale si possono trovare dei collegamenti: c’è anche di Leopardi nella visione pessimista, ma anche nei termini usati: “traluceva” è una parola che può aver preso dall’Idillio “La sera del dì di festa” (traluce).

Nelle schiere ignave, invece, possiamo rivedere Dante (Inferno, Canto III). Tali riferimenti possono far intuire gli studi letterari seguiti dall’autore.

Infine l’uso dei tre puntini di sospensione finali è caratteristica dei componimenti di questa raccolta che spesso si concludono con un’immagine che sfuma.

 

*** *** ***

 

 

10

 

 

Il componimento descrive in modo crudo e, al tempo stesso, malinconico la scena che si svolge in un bar all’ora dell’aperitivo e le riflessioni di un uomo ormai consumato dall’alcool, nel quale il poeta, malato di tumore, si immedesima.

L’avventore solitario osserva dal suo angolo nascosto l’arrivo di un gruppo di persone che dopo aver preso l’aperitivo se ne va dal locale, lasciandolo desolato e silenzioso.

Nella prima parte del componimento, l’autore-narratore descrive in modo tagliente e carico di disprezzo le diverse categorie di persone che, arrivate al locale, si assiepano intorno al bancone.

Nella parte finale il protagonista si lascia andare a una riflessione estremamente angosciosa e malinconica, che lo porta a comprendere come i suoi sogni, così come la sua vita siano morti, affogati nell’alcool, sul bancone del bar, paragonato al tavolo di una camera mortuaria. L’atmosfera che circonda i versi è cupa, a tratti persino volgare.

La struttura sintattica è decisamente complessa, poco scorrevole; questo effetto è reso anche dal lessico forbito che unisce termini stranieri con altri desueti o molto ricercati.

La figura retorica più ricorrente è sicuramente la metafora; particolarmente significativa quella presente nei versi iniziali, “Gotham city... mentale”, attraverso la quale il poeta paragona la città a due città fantastiche, difese da due supereroi (Batman e Superman), ma pur sempre topaie in cui gli uomini corrotti, stravolti e senza tempo per pensare, corrono da una parte all’altra come ratti bigi. “Calvario”, “Politiche mummie immusonite”, “Lemuri”, “Ninfe egerie”, “Ninfette in fiore”, sono altre espressioni tese a sottolineare il degrado della città, descritta come luogo di dolore e patimento, e lo squallore dei suoi abitanti.

Dal punto di vista fonetico il componimento è ricco soprattutto di allitterazioni, utilizzate, a volte per rallentare il ritmo della poesia e spingerci a rifletter sul significato dei termini che stiamo leggendo (ad esempio l’allitterazione della m in “mummie immusonite”), in altri casi per rendere in maniera più incisiva determinate immagini (l’allitterazione di squ in “squagliando, squittisce” aumenta l’idea di qualcosa che si espande, quella della zz in “impazza, svolazza” ricorda il ronzio della mosca quando svolazza qua e là sul vetro. In “spella… strapazzato” l’allitterazione della s dà la sensazione di sentire la pelle che si lacera).

Altra figura retorica efficace è l’ossimoro “pianto surgelato”.

Il componimento non presenta rime evidenti, se non qualche rima interna unitamente ad altre assonanze o consonanze. Importante in questo senso la consonanza “pianto-purulento” poiché sottolinea il concetto di pianto sporco: il protagonista infatti è consapevole di aver permesso alla sua vita di essere sgradevole, monotona e a volte insensata (soprattutto quando beveva).

La poesia si conclude con un pensiero rivolto alla morte, e il pessimismo che aleggia in tutto il resto del componimento, tocca a questo punto la Spannung: il protagonista è, infatti, cosciente di essere vicino alla morte, inevitabile conclusione di una vita trascorsa nella disperazione dell’alcool e nella solitudine.

 

 

Teddy ha le mani in pasta, l’arguzia imbonitrice

ben disposta

e ad libitum fornica con il vario

campionario dell’ibrida clientela

che squagliando squittisce verso sera.

La cosmopoli vomita incessante – Gotham City o

Metropolis, topaie

corse da ratti bigi

in eternale anestesia mentale –

dallo smog del calvario mercenario

una fitta congerie

di ninfe egerie e di ninfette in fiore,

di politiche mummie immusonite e impiegatizia fauna,

di virili boy-scouts atti all’astuto

traccheggio finanziario,

di omuncoli ranuncoli in calore tra erotico e bancario,

di dealers che volteggiano insaziati, e con essi,

ancora, trans bistrati,

fitness man adusti; e giornalisti o artisti – così pare –

ingiubbati di brache di tela, di corpetti d’altera costura.

Di pellame omosex incoiati.

 

Si assiepano da presso e Teddy strizza

l’occhio al crocchio mescendo senza posa

l’elisir che li india, bevanda che li impiazza o mariposa

che sbanda che svolazza

sull’incongruo abbandono alla finzione

d’esser in vita, ironica miopia. Poi se ne vanno. E

sento acre nell’aria fluttuare

il disgregato tanfo che il corteo – dinoccolata l’ilare

andatura –

dai lemuri umanoidi – miei confratelli infidi –

da poco guadagnata

la giungla di primeve tane o nidi,

si è lasciato svagato alle spalle.

Questa è l’ora

del cristallo d’angoscia, del bar deserto, del riposto

assenzio,

quando risuona il sibilo penoso dei bronchi attossicati

e sgocciola dal cuore martoriato sul piano della tavola

denuda

nella morgue epilettica dei sogni,

il rintocco del pianto surgelato,

la lacrima che cade si impaluda

nell’ombra dello stagno purulento

che alla ronda notturna di cauchemars

mi pitta e spella il viso strapazzato

dall’unto mi ustiona.

Dall’Erebo che attende

e non perdona.

 

 

NOTE:

v. 4 Ad libitum: a piacere.

v. 4 Fornicare: commettere atti carnali illeciti.

v. 11 Congerie: massa, mucchio.

v. 12 Egerie: consigliatrici; Egeria era la ninfa che ispirava a Numa Pompilio le riforme, qui è detto di donne che consigliano senza apparire

v. 15 Traccheggiare: trattare questioni economiche continuando a rimandare, indugiando.

v. 17 Dealers: affaristi.

v. 18 Bistrati: truccati.

v. 19 Adusti: abbronzati.

v. 21 Incoiati: duri come il cuoio.

v. 24 India: esaltare, rendere simili a dio; neologismo dantesco.

v. 24 Mariposa: farfalla in spagnolo.

v. 31 Lemuri: larve, ombre di persone defunte che tornano a molestare i vivi a Roma venivano loro dedicate le feste Lemuralia, o forse usato nel significato di proscimmie.

v. 41 Morgue: camera mortuaria.

v. 45 Cauchemars: incubi.

v. 46 Pittare: rigare.

v. 48 Erebo: inferno pagano, Ade, regno dei morti.

 

 

Per una lettura di Grytzko Mascioni

4SEGUE...

 

 

Cristina Pedrana e Gianluca Moiser (a cura di)

Tanto per dire non è stato invano

I ragazzi del Liceo Donegani di Sondrio leggono Grytzko Mascioni

Associazione “Grytzko Mascioni”, 2007, pagg. 188


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