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Gianfranco Cordì. Alexandre Kojéve e il ghiaccio della «Nozione di autorità»
27 Ottobre 2015
 

Le sabbie mobili dell’autorità. Qualcosa che immobilizza, che blocca, che ferma per sempre un'altra cosa. Qualcosa che, agendo su qualche altra cosa, fa sì che quest’ultima cosa «pur essendo in grado di farlo» non reagisca affatto all’assalto della prima cosa. Nelle parole stesse di Alexandre Kojève: «l’autorità è la possibilità che un agente ha di agire sugli altri (o su un altro), senza che questi altri reagiscano nei suoi confronti, pur essendo in grado di farlo». In questo suo La nozione di autorità (Adelphi, 2011), Kojève gioca sui margini e sui residui di questa definizione per imbastire una specie di resoconto inarticolato che dagli aspetti fenomenologici del problema che l’autore si è posto passa ad alcune caratteristiche metafisiche e poi ontologiche per planare in alcune deduzioni politiche, morali e psicologiche. Chiudono il volume due appendici: «Analisi dell’autorità del Maresciallo» e «Considerazioni sulla rivoluzione nazionale». Ma l’autorità, come si è detto, irrigidisce per sempre colui al quale essa è rivolta oppure rispetto al quale essa si esplica e gli impedisce qualsiasi movimento futuro. Qualsiasi reazione in risposta all’atto di autorità con la quale la stessa autorità si è manifestata. «Esiste Autorità soltanto là dove c’è movimento, cambiamento, azione (reale o almeno possibile): si ha autorità solo su ciò che può “reagire”, cioè cambiare in funzione di ciò o di colui che rappresenta l’Autorità (la “incarna”, la realizza, la esercita)».

L’atto detto autoritario si distingue dall’insieme di tutti gli altri atti: per il fatto di non trovare opposizione alcuna in colui al quale è diretto. Colui al quale è diretto cade nelle sabbie mobili della non reazione, della sottomissione, della sparizione della propria originaria consapevolezza di essere un soggetto che può esercitare un'azione cosciente. Kojève imbastisce a questo punto il programma di una quadruplice distinzione relativa alla «nozione di autorità». Nel corso della storia sono state infatti proposte, afferma il filosofo, quattro teorie distinte relative all’argomento che egli sta trattando in questo libro. 1) la teoria teologica o teocratica; 2) la teoria di Platone; 3) la teoria di Aristotele e 4) la teoria di Hegel. Queste quattro teorie, a loro volta, corrispondono a quattro forme (tipi) irriducibili l’uno all’altro di autorità. Una volta che abbiamo appreso che «basta che un autorità sia riconosciuta perché di fatto esista». E che quindi incidentalmente siamo anche venuti a sapere che l’autorità esiste solo «nella misura in cui» è riconosciuta e che, del pari, «nella misura in cui» è riconosciuta essa allora esiste. Una volta appreso questo, e una volta che ci siamo resi pianamente conto che «il fenomeno dell’autorità “è affine” a quello del diritto» e che quindi il riconoscimento di un'autorità presuppone una lotta, un conflitto, un dissidio che è sempre lotta per un diritto, apprendiamo infine che i quattro tipi di autorità sono: quella del Padre (la causa), quella del Signore («il rischio»), quella del Capo (il progetto-previsione) e quella del Giudice (l’equità e la giustizia). Tutto ciò ci fa subito intuire che esiste una relazione fra le teorie della scolastica (autorità teocratica) e la figura del Padre, fra la teoria di Hegel e la figura del Signore, fra la teoria di Aristotele e il tipo del Capo e infine fra la teoria di Platone e il tipo del Giudice. Ma la quadruplice distinzione lancia le sue ramificazioni ancora più in là.

«Il fondamento metafisico dell’Autorità è quindi una “modificazione” dell’entità “tempo” (si intende tempo “umano” o “storico” con il ritmo: Avvenire, Passato e Presente, in opposizione ai tempi “naturali”, con il primato del Presente - nell’ambito “fisico” - o del Passato - nell’ambito “biologico”». Tutto questo perché «l’autorità è un fenomeno essenzialmente umano (non naturale) - il che vuol dire… sociale e storico. Abbiamo dunque che alle quattro teorie di autorità cui corrispondevano i quattro tipi irriducibili sono associate anche quattro connotazioni temporali: la scolastica (e quindi il Padre) corrisponde al passato; la teoria di Hegel (e quindi la figura del Signore) fa riferimento al presente, la teoria di Aristotele (e perciò la figura del Capo) si riferisce al futuro mentre, infine, la teoria di Platone (e la figura del Giudice) corrisponde all’eternità.

A questo punto della sua disamina Kojéve può ben passare dalle connotazioni metafisiche del suo discorso a quelle più propriamente ontologiche. «L’analisi ontologica deve rivelare la struttura dell’Essere stesso, preso in quanto Essere, struttura che corrisponde al quadruplice “fenomeno” dell’Autorità». Sul piano dell’esistenza umana questo fenomeno manifesta due esistenze metafisiche: quella dell’eternità e quella del tempo. E manifesta altresì ancora le realizzazioni di queste due esistenze sotto forme di cause. Per cui a questo punto, dopo aver affermato che la struttura dell’essere si manifesta nell’esistenza (cioè nei fenomeni) e dopo aver affrontato la disquisizione fenomenologica nella prima parte del volume, Kojéve ha buon agio a condurre la propria disamina attraverso alcune deduzioni che si possono trarre dalla «nozione di autorità» così tanto filosoficamente fondata e formata. Si tratta di alcune conseguenze politiche, morali e psicologiche le quali non fanno che confermare lo stato di totale immobilità cui è condotto il fruitore dell’atto autoritario nello stesso momento in cui l’atto autoritario ha avuto luogo.

 

Gianfranco Cordì



 
 
 
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