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Angstbar. Poesie 1991 – 2003  
Per una lettura di Grytzko Mascioni. 2
Edward Hopper,
Edward Hopper, 'Soir Bleu, 1914 
24 Ottobre 2015
 

I testi presentati in Angstbar nella sezione “Ex Illyrico tristia”, costituiscono una scelta, con modifiche anche importanti dei testi raccolti in Ex Illyrico tristia edito a Rijeka nel 1994.

Identici sono i versi di Ovidio posti in epigrafe:

Siquis, ut in populo, nostri non immemor illic,

siquis, qui, quid agam, forte requirat, erit,

vivere me dices, salvum tamen esse negabis.

la prima citazione è costituita da versi tratti da Tristia, I, vv.17-19, attraverso di essi l’autore latino si rivolge alla sua poesia, assegnandole il compito di dare notizie della sua esistenza a chi chiedesse di lui.

La seconda è costituita da un verso dell’Ars amatoria, I, 29:

Usus opus movet hoc

Insieme, posti come breve introduzione alla sezione dedicata al dramma della guerra nella penisola balcanica, sottolineano la speranza da parte di un uomo che si sente un sopravvissuto, di restare nella memoria altrui, l’uomo in questione sa bene che, - non è, però, salvo – tuttavia si sente spinto, o, forse, quasi obbligato, alla scrittura dall’esperienza delle vicende vissute.

I testi scelti e raccolti qui sono: “Il dono di una spina”, “La fiamma di una piaga”, “Malamore a Spalato”, “Un sospiro croato”, “Basta la luce”, “Vino di Mostar”.

Le intenzioni appena appena sperate in queste poesie dalla lingua difficile e dal lessico scintillante, come afferma Grytzko Mascioni stesso nella postfazione al testo edito in Rijeka, sono più civili che letterarie, e il destinatario di questo “diario che si fa epistolario” è “il cuore distratto del labile impero occidentale” che, in modo ingiustificato e incomprensibile, è lontano con la mente e col cuore dalla vicina tragedia croata.

Epistolario perché si cerca un interlocutore, un qualcuno che risponda e che spieghi perché una situazione così disperata non produca che tiepide reazioni.

 

Rispetto ai testi della prima edizione, queste poesie sembrano asciugate, sono rese più compatte dalla fusione di immagini; prive di parti esplicative o interventi chiarificatori si presentano, pur nella loro ricchezza lessicale, più icastiche. L’aggettivazione è più incisiva anche quando vuole solo accennare, il tono si mantiene elevato.

In Il dono di una spina, ad esempio, il quasi banale “brevemente ferisca” della prima edizione, diviene “trapunga di sgomento” che ci lascia basiti e consci della necessità di un sia pure leggero memento.

Così “il grato accumulo di beni e loro spreco” pochi versi dopo, sempre in Il dono di una spina della prima edizione, si condensa in “un grato di sperperi tesoro cumulato” di forte efficacia.

In questi “nuovi” testi, rispetto ai precedenti Mascioni non cerca più il colloquio, il linguaggio perde il tono conativo e diventa più referenziale, l’autore sembra meno coinvolto emotivamente e meno provato dalla lontananza della figura femminile prima piuttosto incombente.

Ci sentiamo autorizzati a parlare di poesia fortemente autobiografica da alcune note dell’autore stesso che parla di sé come un “guardiano occidentale” che vive la guerra vigilando su “una luce che non vuole finire”.

 

 

 

ANGSTBAR (2002)

 

O morte, vecchio capitano, è il momento!

Questi versi costituiscono l’inizio dell’ottava parte del poemetto CXXVI de I fiori del male di Charles Baudelaire, intitolato “Il viaggio”. Questi versi furono scritti a Honfleur nel 1859.

 

Ascolta, mio caro, ascolta la dolce Notte che sale.

Questo è l’ultimo verso della poesia “Raccoglimento”, la settima della raccolta I nuovi fiori del male. L’invito è rivolto al Dolore (La douleur) che invocava la sera quando il sole moribondo si addormenta e la dolce notte “come un lungo sudario strascicante ad Oriente”, sale.

 

La presenza e le suggestioni baudelariane sono un accompagnamento costante nella poesia di Mascioni soprattutto negli echi più disperatamente dolci o in talune macabre descrizioni.

 

 

 

Envoi

 

 

L’uomo che mostra qualche presunzione

Nel dire Io – l’impropria

Addizione di nuvole disfatte nel cielo porporino

Di un protratto tramonto fra dirute

Passioni cagionevoli, emozioni

Costrette in un gomitoli di lana

Che si sfilaccia sulla faccia grama

Per mute mutazioni, nella vana

Fiorita deflorata del mattino

Di rose illuse – è un anno che non beve.

 

Lo strappo fu la svelta conclusione,

la scelta di una lama

che incise l’occhio, il fiotto

del laser luminoso che separa

la vita di un anonimo languore

dall’irta verità

per cui si muore.

 

 

La poesia fa parte e dà l’avvio alla raccolta Angstbar, che costituisce la prima sezione dei testi pubblicati nell’ultimo libro di Mascioni, anch’essa, non a caso, intitolata “Angstbar”. Angst in tedesco significa angoscia; già dal titolo dunque traspare lo stato d’animo dell’autore, che ha saputo di essere malato di tumore al fegato. Angstbar è il bar della angoscia, della sofferenza, è il non luogo, privo di identità, in cui si ritrova il sofferente con la propria storia, forse responsabile del suo dolore.

Il titolo della poesia, Envoi, in francese significa avvio, invio e indica l’inizio, l’avvio verso la fine dell’autore. L’uso del francese è dovuto, forse, al fatto che furono proprio dei medici di Nizza a diagnosticare al poeta la sua malattia.

La prima strofa è formata da un lunghissimo periodo all’interno del quale è inserito un interminabile, quasi estenuante, inciso. Tralasciando ciò che è scritto tra le due lineette, nelle due parti di frase ricongiunte il poeta parla, in terza persona, di un uomo che è un po’ presuntuoso nel definirsi e che non beve da un anno. L’uomo è, evidentemente, Mascioni stesso, o qualsiasi persona che si ritrova a vivere un dramma simile: egli, infatti, prima di scoprire di essere gravemente malato, era affezionatissimo cliente di un bar dove l’aspettava sempre un bicchiere di whisky; ora, invece, non vuole o non può più bere. La scelta della terza persona può avere forse più valori: la descrizione della condizione di un uomo in cui anche il lettore può identificarsi; un’analisi del proprio dramma dal di fuori, quasi un non riconoscersi più perché profondamente cambiato. Mascioni, infatti, scrive queste poesie in condizioni psicologiche molto diverse da quelle di qualche mese prima.

Nel lungo inciso il poeta descrive la condizione del suo IO, attraverso immagini e parole che evidenziano un senso di disfacimento: un insieme indefinito di nuvole scomposte nel cielo rosso di un tramonto, ormai al termine, tra sentimenti diroccati e scarsa salute. Le nuvole, pur essendo già in sé inconsistenti e in continuo movimento, si uniscono in un’addizione che, però, è impropria; inoltre, esse vengono connotate dal participio passato “disfatte”, nel 3° verso, che rafforza l’idea di grande debolezza. Il momento della giornata descritto nel 4° verso è il tramonto, quando anche le nuvole ormai svaniscono, e per di più si tratta di un tramonto inoltrato. L’io descritto da Mascioni, così, risulta essere molto debole, costituito da singoli lembi che vanno e vengono continuamente, che non sono stabili, si creano e si disfano in un tempo ormai vicino al tramonto della vita. Si può notare attraverso le forti allitterazioni della “d”, della “t” e della “r”, la durezza dei suoni, che sembrano quasi di condanna a morte.

Le emozioni sono rinchiuse in un gomitolo di lana che però si disfa sulla faccia triste a causa di silenziosi cambiamenti, nella inutile fioritura del mattino di rose illuse. Le emozioni di una vita, sparse, costrette, ora si liberano, ma si liberano tristemente perché è tardi: Mascioni ha subito un cambiamento terribile in silenzio: la scoperta del tumore; la fioritura delle emozioni, quindi, risulta vana. La locuzione “fiorita deflorata” è un accostamento antitetico che ben sottolinea la precarietà della vita, fatta di tante illusioni, di sentimenti illusi, come illuse sono le rose (simbolo della passione) perché, fiorite al mattino, sono destinate, senza saperlo, a richiudersi in poco tempo. Tra il 5° e il 6° verso è presente un enjambement, emozioni-costrette, che evidenzia l’appartenenza delle due parole a sfere di significato opposte; infatti, questo accostamento è anche un ossimoro, perché il termine emozioni, dal latino ex moveo, indicando qualcosa che “viene fuori”, non può essere allo stesso tempo qualcosa di costretto, cioè imposto, bloccato, non spontaneo. Nel 7° verso c’è una rima interna, che associa il verbo “si sfilaccia” con “faccia”; evidentemente lo sfilacciamento del gomitolo e, quindi, la fuoriuscita delle emozioni, ha ripercussioni chiare, visibili sul viso del poeta. Nel verso successivo, compare una figura etimologica, “mute mutazioni”, accostamento volto forse a comunicare che i cambiamenti più profondi sono anche i più silenziosi, quelli che avvengono dentro l’uomo e che non hanno bisogno di tante parole.

Lo strappo, termine onomatopeico che indica qualcosa di violento e rapido, cioè la decisione di smettere di bere, costituisce la veloce conclusione, quasi inevitabile, la scelta di una lama che colpisce l’occhio, il filo di luce di un laser luminoso che separa la vita di una abbandonata monotonia dalla verità terribile che conduce alla morte.

Nella seconda strofa il ritmo si fa più veloce e incalzante: i versi sono più brevi, in particolare gli ultimi due, e parole come “strappo”, “svelta conclusione” (11° v.), “fiotto del laser” (12°-13° vv.) trasmettono una sensazione di rapidità, imminenza. La luce del laser (forse Mascioni ha voluto fare riferimenti ad apparecchiature mediche) viene vista come il sottile filo, corrispondente alla scelta di non bere, che divide la vita del poeta in due parti: da una parte il tran-tran quotidiano precedente alla malattia, che è reso bene dalla lenta locuzione “anonimo languore” (15° v.), con la ripetizione dei suoni n e m; dall’altra tutto ciò che è successo e succede dopo la scoperta del tumore. Una rapida, improvvisa, impietosamente rimbombante verità, comunicata a Mascioni senza mezzi termini; la rapidità e la terribilità della notizia emergono nel penultimo verso che, contrastando con il precedente per lunghezza e fonetica legate al significato del verso stesso, contiene suoni duri e aspri (d, rt, v, r, t) e termina con una parola, “verità”, tronca, sospesa. Anche la vita del poeta, ora, è sospesa, ed egli è consapevole del fatto che la morte (l’ultima parola della poesia non a caso è “muore”) gli troncherà la vita. 

 

 

Per una lettura di Grytzko Mascioni

2 – SEGUE...

 

 

Cristina Pedrana e Gianluca Moiser (a cura di)

Tanto per dire non è stato invano

I ragazzi del Liceo Donegani di Sondrio leggono Grytzko Mascioni

Associazione “Grytzko Mascioni”, 2007, pagg. 188


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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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