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Gianfranco Cordì. Il movimento verso l'ápeiron in “Díke” di Emanuele Severino
15 Ottobre 2015
   

A Paolo Milea

 

1. IL DESTINO. GLI ETERNI. LA NECESSITÀ. «Il destino è il luogo già da sempre aperto che accoglie l’interpretazione, cioè la fede - la volontà - in cui consiste l’isolamento della terra dal destino, e pertanto accoglie anche la cosiddetta “storia” dell’Occidente» afferma Emanuele Severino in Díke (Adelphi, 2015). La necessità, del pari «è l’esser sé di ogni essente». La necessità in fondo è il destino della necessita. Vi è un certo nesso (fra ogni essente e il suo proprio essere sé stesso): questo nesso è, certamente, la necessità del destino. Ma esiste anche qualcosa che è di fatto impossibile: è impossibile che ogni essente incominci ad essere e che finisca di essere. Tale impossibile sono «gli eterni». Severino inaugura questo suo mirabile libro introducendo uno scenario, una piattaforma, una quinta del tutto generale. In essa si investono di significato i termini: destino, eterni e necessità. È come se questa quinta fosse il palcoscenico più adatto a far cogliere pienamente il risultato della rappresentazione che vi si svolgerà. Esistono gli essenti. Questi essenti sono eterni perché sono sé stessi e nulla di altro. La specificazione che questi essenti (eterni) siano sé stessi è nulla d’altro (neppure lo stesso nulla tout court, per esempio) vuol dire che essi sono necessari. Ma tale necessità è, proprio, il destino. Siamo in una triangolazione altamente astratta che introduce però totalmente al discorso che Severino intende intraprendere in questo libro.

2. L’IMPOSSIBILE. Dal destino della necessità si sgancia la terra. La terra diventa isolata. All’interno di questa terra isolata (dal destino) si fa avanti una convinzione: che gli essenti cominciano ad esistere (dal nulla) o finiscono di esistere (nel nulla). Nel destino, come si è detto, ogni cosa è se stessa e non comincia a esistere né finisce di esistere e non vi è neppure il suddetto nulla. Il destino contrasta la terra isolata. Nella terra isolata si crede nel diventar altro. Nel destino ogni essente è eterno. Ma il destino è «l’apparire della necessità»: per cui in esso tramonta ogni contraddizione: non si crede più che gli essenti (eterni) diventino altro oppure diventino nulla. Per necessità ogni essente è quello che è. Per necessità ogni cosa è appunto quella cosa che è e niente di altro oppure di nulla. E ogni essente non diventa altro da sé, non muta, non si corrompe, non lotta contro il destino, non crede di dover cambiare sé stesso e il destino in virtù di una qualche volontà empirica (che egli pur possiede). A questo punto, una volta che la lotta è stata sanata, che il contrasto fra gli enti (nella terra isolata) è stato sciolto, che le cose sono tornate a posto subentra, arriva, giunge, si manifesta la terra che salva. Questa terra che salva è proprio díke: ovvero in questa fase della sua speculazione Severino mette in atto una continuazione del proprio pensiero. Cioè imbastisce una intera riflessione e un analisi intorno al frammento di Anassimandro - «la più antica testimonianza del pensiero filosofico», tramandatoci da Simplicio, che costituisce anche una attestazione che è «alle radici dell’intera storia dell’Occidente» - nel quale compare appunto díke. L’esegesi che Severino offre di questo frammento è la seguente: «Le cose dalle quali … vi è generazione per gli enti sono le stesse nelle quali avviene la dissoluzione (degli enti) secondo necessità; infatti essi stessi … rendono giustizia … ed espiazione, reciprocamente, per la (loro) ingiustizia … secondo l’ordine del tempo». In definitiva Severino non interpreta il frammento di Anassimandro sulla base della sua speculazione precedente (che pure utilizza abbondantemente durante tutto il corso del volume) ma invece innesta la sua speculazione (attuale) sull’interpretazione del frammento di Anassimandro che egli fornisce. Severino fa continuare la propria speculazione (quindi anche la somma di quella precedente, i risultati ottenuti e acquisiti con il complesso dei volumi precedentemente pubblicati) sulla base della autorevole testimonianza del frammento di Anassimandro. Usa il frammento, insomma, come punto di partenza di una nuova speculazione. E a quali acquisizioni giunge questa nuova speculazione? L’esegesi del frammento è chiara. Inizialmente c’è, per Anassimandro, l’ápeiron (l’infinto) ovvero l’Uno-Infinito nella traduzione che ne offre Severino. Da questo ápeiron si separano gli essenti. Insomma, lo abbiamo già visto, gli eterni da principio (nel destino della necessità) erano sé stessi e nulla di altro: da questo ápeiron gli essenti si separano e anche questa separazione è necessaria. Anzi sono necessarie tre cose: 1) che gli essenti si separino (escano) dall’ápeiron; 2) che si produca ingiustizia; 3) che gli essenti ritornino alla loro origine. Tutto questo emerge chiaramente dall’interpretazione severiniana del frammento di Anassimandro. Separandosi dall’Uno gli essenti (eterni) non riescono ad essere sé stessi: si produce una lotta, una contesa, una guerra. Nel separarsi e aprendo la regione dell’ingiustizia - e non riuscendo più ad essere sé stessi (nel destino ogni essente era sé stesso e null’altro che sé stesso) - gli essenti commettono ingiustizia nei riguardi del proprio esser essenti (cioè eterni). E nel commetter questa ingiustizia si annullano a vicenda, i contrari si fanno la guerra e si distruggono: c’è solamente morte e orrore. A questo punto della sua speculazione, Emanuele Severino, richiamando massicciamente nel corso della propria riflessione autori come Martin Heidegger ma anche Aristotele, Eraclito, Parmenide e Hegel (e, incidentalmente, facendo riferimento anche, lungo l’asse che sorregge tutto il libro, a Kant, Nietzsche, Lukasievicz, Russell e Bradley oltre che a Melisso), introduce anche i concetti di due semicerchi. Esistono due semicerchi (sincronici fra loro e dunque in successione l’uno rispetto all’altro) del diventar altro. Il primo semicerchio è la «flessione dell’Inflessibile» ovvero la separazione degli essenti dall’ápeiron. L’illusione che avvolge i mortali che gli essenti possano generarsi e corrompersi. Il secondo semicerchio invece è il rammendo, il ritorno all’origine, la giustizia ripristinata. In mezzo a questi due semicerchi sta la pena ovvero «la distruzione a cui [gli essenti] vanno incontro ritornando alla loro origine». Vi è un doppio movimento: il movimento di separazione dall’origine e il movimento di ritorno: quest’ultimo è anche un movimento di visione del ricettacolo. Infatti all’interno dell’ápeiron (che, per necessità, è rimasto sé stesso anche quando da esso sono fuoriusciti i contrari: l’infinito, infatti, non si annulla affatto ma continua a contenere anche tutto quello che esce da sé ovvero dalla propria infinità) la giustizia (díke) stabilisce la condizione originaria nella quale gli essenti si trovavano a essere sé stessi e non altro da sé (ovvero si trovavano a non diventar altro). Díke ripristina la salute, risana, fa rinsavire: gli essenti adesso sono quello che sono. Díke fa ritornare a sé. Afferma la stabilità della situazione nella quale i contrari sono uniti da una «e»: sono sé stessi eppure riescono a coesistere con il loro contrario: sono uniti in un ricettacolo la cui osservazione è il farmaco (díke) che risana il credere nel diventar altro (tipico della terra isolata). Il movimento verso l’áperion (il secondo movimento di cui si diceva): «è díke in quanto è l’Uno immutabile che contiene eternamente tutti gli enti, e tuttavia, in quanto è la potenza suprema che li “governa” facendoli ritornare a sé dopo averli generati o aver lasciato che da esso si generino, la potenza di díke è anche il fare che produce salvezza». Ogni nesso fra essenti (eterni) è necessario; ogni essente è necessario: nel destino appare anche che le negazioni dei nessi necessari, cioè le contraddizioni, sono eterne e necessarie. È dunque impossibile che un nesso necessario (gli essenti, l’anima, le contraddizioni) esca dal nulla e vi ritorni. Ciò è impossibile all’interno dello spazio della necessità del destino e nella terra che salva. Questo impossibile viene ripristinato da díke. Díke restaura la giustizia dell’essere. «Pensare che l’essente esca dal nulla e vi ritorni è un credere nell’impossibile (cioè nell’essere di ciò che è assolutamente nullo) sia perché questo credere, credendo in un tempo in cui l’essente è nulla, identifica l’essente e il nulla, sia perché il nulla, apparendo in questo credere, è una contraddizione, quindi qualcosa il cui contenuto è impossibile, nullo; si che, da un lato, il credere nell’uscire e nel ritornare nel nulla è una contraddizione, dall’altro lato, l’uscire da nulla e il ritornarvi è un non uscire e un non ritornare».

3. IL RAMMENDO. Dunque il movimento verso l’ápeiron è un ritorno. La giustizia viene ripristinata. Il rammendo viene effettuato. Ma tutto ciò è anche necessario. Lo stesso sopraggiungere della terra isolata è necessario. Il contrasto tra il destino e la terra isolata dal destino è necessario. Il divenire, la contraddizione, la lotta degli essenti l’uno verso l’altro, l’annientamento e la pena sono necessari. Il frammento di Anassimandro, dichiara dunque Severino, mostra che la terra (isolata dal destino) è il «fondamento» della «coscienza che in essa va mostrano come la vita sia quell’odio-amore fra essa e l’Inflessibile». In altre parole il frammento di Anassimandro si trova «al culmine» di questa «coscienza»: esso mostra la necessità che díke sia la morte che riconduce all’ápeiron. Ma il destino è necessario: è necessario che ogni essente sia sé stesso e null’altro di differente da sé stesso. Díke rimette a posto questa necessità sanando il contrasto del diventar altro (in cui sono caduti gli essenti a causa della separazione): ogni cosa adesso è quello che è, le cose sono quello che sono, gli essenti sono eterni e quindi identici a sé stessi e privi di ogni contraddizione in quanto uniti da quella «e» che li congiunge e li fa stare insieme pur essendo contrari. «L’Occidente pensa, nel frammento di Anassimandro, il tratto decisivo a cui resterà poi sempre fedele, che cioè il dolore … è prodotto dalla “realtà” del diventar altro, la quale è a sua volta prodotta dalla “realtà” della sua separazione dall’Uno immutabile». Nel ricettacolo può dunque avvenire la terra che salva.

 

Gianfranco Cordì


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