Si è aperta nelle sale delle Arti della Reggia di Venaria, Residenza Sabauda vicino a Torino, la mostra “Raffaello, il sole delle arti”, un esposizione inconsueta che fino al 24 gennaio 2016 propone nove capolavori di Raffaello e 130 opere delle cosiddette “arti applicate”, delle quali l’artista di Urbino è stato ispiratore. La sua opera divenne così archivio e catalogo di soggetti figurativi, di motivi decorativi, di stile e d’impianti compositivi, a cui le “arti congeneri” come le chiamava il Vasari, attinsero traducendole nella loro tecnica.
Il nome Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 – Roma, 1520) è tradizionalmente unito a quello di Leonardo e di Michelangelo per costruire la cosiddetta «triade solare» del rinascimento italiano.
Anch’egli «divino», è ritenuto il massimo fra i pittori anzi «il pittore», colui che dipinge per grazia infusa, per dono naturale, senza sforzo, senza ricerca, raggiungendo la perfezione.
Per Raffaello dunque si crea il mito, un mito tramandato alla storia pressoché intangibile. La sua fama e risonanza in tutte le arti fu un emanazione inconsapevole che aveva come fulcro operativo la grande bottega romana che Raffaello mise in piedi, ormai famoso e richiesto da tutti, affollata di giovani apprendisti così come di artisti già affermati. Una vera impresa, che partecipava e condivideva tutte le opere a cui Raffaello metteva mano. La mostra alla Reggia di Venaria, curata da Gabriele Barucca e Sylvia Ferino in collaborazione con un comitato scientifico presieduto dal Direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, si sviluppa in quindici stanze, attorno alle nove opere originali di Raffaello che danno il ritmo a sezioni affollate d’incisioni e disegni, maioliche, armature, formelle e monili in argento e altri metalli, poi arazzi, legni scolpiti. Si parte dalla formazione del giovane Raffaello, avvenuta nella città di Urbino, uno dei fulcri del Rinascimento. È figlio di Giovanni Santi, artista anche lui e suo primo maestro. Saranno poi il Perugino, Signorelli e il Pinturicchio, le figure centrali del suo apprendistato, come mostrano gli accostamenti di opere presenti in mostra. L’altorilievo in terracotta invetriata della Madonna della mela di Luca della Robbia, nella sua patina bianco-azzurra, introduce un altro artista, che rappresentò un riferimento per Raffaello, così come introduce il tema a lui caro delle celebri e dolcissime Madonne con Bambino, testimoniato dalla Madonna del Granduca.
Opera straordinaria che risente di suggestioni leonardesche. Dal fondo scuro emerge la piramide allungata della Madre che regge il figlio, leggermente ruotante, i contorni ammorbiditi dall’ombra, le forme coordinate reciprocamente, i volti, particolarmente quello di Maria, totalmente idealizzati, pur partendo dalla realtà quotidiana.
Mentre la sala con prospettive scenografiche dovute ad un illuminazione filtrata tra luci ed ombre, accoglie tre ritratti che emergono dalla penombra: Elisabetta Gonzaga, la donna detta “la muta” e il Giovane con pomo. È a Firenze che il giovane pittore aveva rivelato anche grandi doti di ritrattista. Mentre il ritratto nel Quattrocento, è ancora una semplice soluzione stilistica, Raffaello (anticipato da Antonello da Messina), cerca di rendere le caratteristiche esteriori e interiori del personaggio che rappresenta, secondo un indirizzo che diventerà comune in tutto il Cinquecento.
Naturalmente ciò non significa che la persona avesse veramente le qualità che il pittore ci mostra; significa che i dati fisionomici reali davanti ai quali egli si è trovato, gli hanno provocato una certa reazione dalla quale è nato quel ritratto, diverso è il momento spirituale nel quale l’autore si trova mentre compie l’opera.
I ritratti di Raffaello rendono del personaggio, chiunque egli sia il suo «vivere nell’ora presente», il suo «essere» nella storia, e sono perciò probabilmente somiglianti. Le vesti dei personaggi sono così dettagliate, alla maniera fiamminga, da diventare modelli astratti, matrici pronte per essere trasferite nelle arti applicate.
Fu attraverso le incisioni che l’opera figurativa raffaellesca iniziò a diffondersi, tecnica seguita da lui stesso, che individuava personalmente gli incisori con cui collaborare, primo fra tutti Marcantonio Raimondi. Quelle incisioni viaggiarono capillarmente e in grande quantità, accessibili anche a un pubblico meno abbiente rispetto alla sua ricca e nobile clientela, diventando modello e ispirazione per artisti e artigiani di tutta Europa. I suoi soggetti sacri, mitologici e storici furono icone che accomunarono coppe e targhe di maiolica istoriata, realizzate dalle manifatture di Perugina, Faenza, Arezzo, Urbino, Gubbio e Deruta. Così come si materializzarono in incisioni su cristalli di rocca, placchette in metallo, smalti, vetri e intagli lignei.
Raffaello diffuse una cultura iconografica che innestò la classicità e il Rinascimento italiano nel resto d’Europa. L’estasi di Santa Cecilia, per esempio, nata come pala d’altare, costituì un riferimento costante per la pittura devozionale.
Santa Cecilia si trova al centro di una sacra conversazione molto serrata, rappresentata a piena figura mentre, abbandonati gli strumenti musicali dei quali è protettrice, volge uno sguardo rapito al cielo, coi grandi occhi scuri, dove è apparso un coro angelico che intona una melodia celeste. Di mano le sta sfuggendo un organetto portatile, dal quale si stanno sfilando due canne, mentre ai suoi piedi giace una straordinaria natura morta di strumenti musicali vecchi o rotti: una viola da gamba senza corde, un triangolo, due flauti sbocconcellati, dei sonagli, due tamburelli con la pelle lacera. Si tratta di un rimando alla caducità della musica “terrena”, simbolo delle passioni umane (i flauti, i tamburelli ed i cembali sono connessi al culto di Bacco) rispetto a quella “celeste”.
I grandiosi affreschi per le Stanze Vaticane commissionate da Giulio II e le cinquantadue formelle dipinte con le storie dell’Antico e Nuovo Testamento, realizzate per le Logge del Palazzo Vaticano, che formarono la cosiddetta “Bibbia di Raffaello”, diedero vita a un compendio di temi figurativi e di innovativi decori classicheggianti di portata globale.
Nella sala sviluppata attorno al dipinto La visione di Ezechiele, si anima, poi, una circolarità simbolica con cui si confrontano sia l’omonimo disegno e omaggio di Rubens, sia, sul lato opposto, un grande arazzo realizzato dalla bottega di Pietre Van Aelst a Bruxelles. Anche gli arazzi furono un campo di grande interesse per l’artista, che se ne occupò traducendoli letteralmente in pittura tessuta.
Raffaello, malgrado il dramma della vita umana, crede nella perfezione di quello strumento divino che è la ragione, capace di superare e dominare le passioni terrene. Raffaello perciò, non tanto per evidenti rapporti con l’arte antica, quanto per il composto e maturo equilibrio interiore, è forse il più classico dei pittori italiani. In lui tutto appare naturale, spontaneo, come se non vi fosse alcuno sforzo: l’arte deve essere nascosta, scrive Casigliane, e «ciò che si fa e si dice» sembrare «fatto senza fatica e quasi senza pensarvi». Ciò non significa certo che Raffaello non pensi, non significa che il risultato finale non sia il frutto di studio.
Significa che egli riesce ad essere talmente chiaro, talmente convincente che ogni travaglio precedente scompare nell’opera compiuta; significa anche che conserva sempre la misura, quella misura che, poco più di mezzo secolo dopo, di fronte al dilagare del nuovo ad ogni costo andando sempre al di là del già fatto, anche Shakespeare chiede, ricordando che occorre «non varcare mai i limiti segnati dalla naturalezza».
Maria Paola Forlani