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Gianfranco Cercone. “Sangue del mio sangue” di Marco Bellocchio: i carceri interiori
28 Settembre 2015
 

È nato un filone all’interno del cinema di Marco Bellocchio: quello degli appunti cinematografici; di film composti di annotazioni: alcune ampie e strutturate; altre brevi come frammenti e nate a volte dall’osservazione estemporanea. Composte insieme, non intendono formare un racconto tradizionale. Non per questo, tuttavia, sono capricciose o arbitrarie.

Per esempio, Sangue del mio sangue, il film che sviluppa il “filone”, inaugurato qualche anno fa da Sorelle Mai, dispone gli appunti intorno a un tema ben circoscritto: la prigione.

Ma attenzione: seppure la prigione di cui si tratta è quella concreta, storica, operante in un convento nel paese di Bobbio, in Emilia, l’intento principale di Bellocchio non sembra essere né quello della ricostruzione storica né quello della denuncia. Il carcere è qui, in primo luogo, un fatto interiore.

In questo autore, tacciato a volte di intellettualismo, predomina un sentimento che può essere rivissuto da qualsiasi spettatore: un furore, o una malinconia carica di esasperazione, per le reclusioni che l’umanità infligge a se stessa, assurdamente, pazzamente; e che, per esempio, le impediscono la libera, naturale espressione dell’amore.

Uno degli appunti più ampi che costituiscono Sangue del mio sangue riguarda un processo per stregoneria avvenuto nel Seicento ai danni di una giovane monaca. Al fine di farle confessare il patto con il diavolo che le imputa il tribunale ecclesiastico, la ragazza è sottoposta a prove tremende, a torture, fino a essere murata viva.

Ebbene, l’impressione che riesce a darci Bellocchio è che a essere in carcere, prima ancora che il corpo della donna, è il consesso dei preti che la giudica: i quali forse, attraverso il rito dei supplizi, si difendono dalla tentazione erotica che la ragazza ispira loro. E infatti il suo corpo martoriato si rivelerà intatto nella sua bellezza a uno dei carnefici, perché intatto è il desiderio che suscita e che lo sgomenta.

E un giovane aristocratico, testimone del caso, anche se ne intuisce l’ingiustizia e l’orrore, per viltà o per tornaconto non fa nulla perché il martirio si interrompa; ma, come per un moto di rivolta deviato, ne riceve un incentivo al libertinaggio.

Non tutto il film si svolge nel Seicento. Si immagina infatti che al giorno d’oggi, nello stesso carcere dismesso, abiti un conte-vampiro, assuefatto a quella tana, che si batte perché l’edificio non sia venduto o trasformato. Qui il tema dell’autocarcerazione si combina con quella della corruzione. Il conte infatti presiede a un giro occulto di certificazioni di false invalidità. Eppure, il tema della repressione di sé, della fuga dalla libertà e dall’amore, si ritrova anche in questo episodio, tanto da far pensare a momenti che il Conte sia una versione umoristica dell’Enrico IV di Pirandello (a cui Bellocchio ha dedicato un film): che preferiva vivere da finto pazzo, recluso in un castello dove recitare il ruolo di re, piuttosto che tornare nella realtà da uomo tra gli uomini.

In uno dei frammenti migliori del film, il Conte, in trasferta notturna fuori dalla sua residenza, spia nell’ombra, in solitudine, una donna di cui si è invaghito in compagnia di un ragazzo. Sono impressioni fuggevoli di amore e di gioventù, preziose perché viste con gli occhi di chi quelle concrete realtà può solo contemplarle.

Sangue del mio sangue, come è nella natura dei film deliberatamente frammentari, è di qualità discontinua, ma certi momenti, certe figure secondarie (accanto ai personaggi principali interpretati da Roberto Herlitka, Piergiorgio Bellocchio e Alba Rohrwacher) appartengono al Bellocchio migliore.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie Radicali, 21 settembre 2015)


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