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Maria Paola Forlani. La grande Madre 
Donne, maternità e potere nell’arte e nella cultura visiva, 1900-2015
08 Settembre 2015
   

Si è aperta a Palazzo Reale di Milano, sotto l’insegna di Expo 2015, la mostra La grande Madre”, fino al 15 novembre 2015. L’evento, promosso dal comune di Milano, è stato ideato e prodotto dalla Fondazione Nicola Trussardi, insieme a Palazzo Reale, curato scientificamente dal quarantenne Massimiliano Gioni, direttore artistico della fondazione e del New Museum di New York. La mostra vuole raccontare la maternità, il suo potere, il suo rifiuto, il suo sfruttamento, il suo essere prigione, limitazione e gioia, obbligo sociale, colpa e virtù, assoggettata alla legge e usata dalla politica: attraverso i movimenti artistici, e le opere d’arte di oltre cento artisti e numerosi documenti e immagini provenienti dalla storia degli ultimi cent’anni. La mostra sceglie come punto di partenza la data simbolica del 1900 per giungere fino ai giorni nostri, ma questa periodizzazione non segue un percorso strettamente cronologico, soffermandosi invece su una serie di nuclei e snodi tematici attraverso i quali la storia dell’arte si sovrappone ad altre manifestazioni e testimonianze della cultura visiva dell’ultimo secolo.

L’immagine della maternità che traspare da questa mostra è assai distante da quella zuccherosa alla quale ci ha abituato la retorica visiva dei media e della pubblicità, o da quella ancora più consolatoria della propaganda nazionalista dei regimi totalitari.

Paradossalmente, infatti, quando si parla di madri e di maternità nel Novecento, si finisce sempre per parlare di padri – troppo spesso padroni – e di stato, di nazioni e di religioni. Analizzare l’iconografia della maternità nel corso del Novecento vuol dire quindi inevitabilmente assistere a un processo di usurpazione per il quale la rappresentazione del materno e del suo immaginario sono affidati all’uomo e solo in rari e controversi casi alla donna.

Raccontare l’iconografia della maternità dunque significa innanzitutto domandarsi chi ha il diritto di decidere del proprio corpo e dei propri desideri e chi ha il diritto di presentarli: significa cercare di capire e ridefinire la posizione dell’individuo rispetto agli altri.

La mostra racconta il desiderio di molte donne di non essere solo madri e nulla più. Per molte delle artiste del primo Novecento incluse in mostra, la maternità infatti appare come un problema al quale sfuggire, una sentenza alla quale sottrarsi, una responsabilità da rifiutare.

L’immagine più devastante di questo desiderio di fuga dal clima soffocante della tradizione è il disegno di Meret Oppenheim intitolato Votivbild (Vürgeengel) [immagine votiva (Angelo strangolatore)], nel quale una donna regge in braccio un bambino sgozzato. Oppenheim concepisce quest’opera come talismano al quale l’artista aveva affidato il suo desiderio di restare senza figli, così da potersi dedicare totalmente all’arte.

La mostra sfila davanti a veneri paleolitiche per raggiungere le “cattive ragazze” del post femminismo, passando per la tradizione millenaria della pittura religiosa con le sue innumerevoli scene di maternità, la storia dell’arte e della cultura hanno spesso posto al proprio centro la figura della madre, a volte assunta a simbolo della creatività e metafora della definizione stessa di arte. La madre e la sua versione più familiare di “mamma” sono anche stereotipi intimamente legati all’Italia.

Il titolo dell’esposizione, “La grande Madre”, deriva dallo studio di Erich Neumann, un adepto di Jung che a sua volta partì da una raccolta iconografica sul tema condotta da Olga Frobe-Kapteyn. La sua serie di 350 figurazioni sui possibili volti delle dee madri esposta nel 1938 a New York e ad Ascona, centro di ricerche spiritualistiche e psicoanalitiche. I testi a cui si è ispirato il curatore coprono comunque uno spettro più largo, toccando anche momenti del femminismo come Germane Gree o Simonie de Beauvoir. Qualche decennio prima gli scritti di Sigmund Freud e le sue osservazioni sul complesso di Edipo avevano trasformato i rapporti familiari e le relazioni tra madri e figli in un dramma di desideri sessuali e tensioni represse che avrebbero segnato l’intero Novecento. Queste atmosfere ritornano trasfigurate nei disegni e nelle incisioni coeve di Alfred Kubin ed Edvard Munch. Le prime sale della mostra alternano queste visioni allucinate all’immagine didascalica della maternità divulgata a fine Ottocento attraverso le fotografie dei Gertrude Käsebier e i film della prima regista cinematografica donna Alice Guy-Blaché.

Un’importante sezione della mostra è incentrato sulla partecipazione della donna alle avanguardie storiche e, in particolare, ai movimenti futurista, dadaista e surrealista.

Giustapponendo il lavoro di artiste e artisti, la mostra mette in evidenza gli aspetti più contrastanti della modernità, analizzando le radicali trasformazioni dei ruoli sessuali che hanno accompagnato i profondi cambiamenti economici e sociali di inizio Novecento. Lo studio della posizione della donna all’interno del futurismo – con opere di Benedetta, Umberto Boccioni, Giannina Censi, Valentina De Saint-Point, Mina Loy, Filippo Tommaso Marinetti, Marisa Mori, Regina, Rosa Rosà e altre – rivela lo scontro tra energie riformatrici e forze repressive nell’Italia di inizio secolo.

Le sale dedicate al dadaismo si concentrano sulla nascita del mito della donna meccanica e automatica – “la figlia nata senza madre” come la battezza Francis Picabia – collocandola nel panorama sociale in rapidissimo mutamento degli anni Dieci e Venti, sia in Europa sia in America. Passando dalle macchine celibi di Marchel Duchamp, Piccabia e Man Ray, alle bambole meccaniche di Sophie Taeuber-Arp, Emmy Henningse, Hanna Höch, fino alle performance irriverenti della Baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven.

Il culto della donna nel Surrealismo è analizzata attraverso la straordinaria presentazione di cinquanta collage originali da La donna 100 teste di Marx Ernst, esposti accanto a opere e documenti di André Breton, Hans Bellmer, Salvator Dalì e altri. Esplorando le implicazioni estetiche ed etiche della fascinazione surrealista nei confronti del femminile, la mostra porta in primo piano le opere di artiste che abbracciano e al contempo rifiutano la retorica del surrealismo, all’interno del quale trovarono strumenti per l’emancipazione femminile ma anche opprimenti stereotipi sessuali. Questa sezione include capolavori e opere celebri di Leonora Carrington, Frida Kahlo, Dora Maar, Lee Miller, Meret Oppenheim, Dorothea Tanning, Remedios Varo, Unica Zürn e altre artiste.

L’arte di Luise Bourgeois, presente con molti capolavori in mostra, ruota attorno alla “distruzione del padre” – per usare il titolo di un’opera che l’artista ha scelto come riassunto della sua intera poetica.

Castrazione ed evirazione ritornano in molte delle sculture dell’artista, che ha più volte descritto la sua esperienza familiare come un susseguirsi di scontri, soprusi e violenze psicologiche. Il pantheon di Louise Bourgeois è colmo di divinità pagane gravide e di idoli di fertilità: tra i suoi feticci abbondano soprattutto creature androgine o accoppiate in estenuanti abbracci in cui si mescolano senza soluzione di continuità protuberanze maschili e rotondità femminili.

Dalle opere in mostra emerge un’immagine molteplice e complessa della madre, lontana dagli stereotipi più frusti e rassicuranti: è il lato più oscuro, umbratile, quasi lunare della maternità che molti degli artisti e delle artiste del Novecento hanno descritto nelle loro opere. Come nello straordinario ciclo fotografico di Lennart Nisson – il primo ad avere fotografato un feto in endoscopia in vivo – la maternità vista attraverso le testimonianze figurative di cento anni di storia si trasforma in uno spettacolo di vastità cosmica ma immerso in un’atmosfera straniante, in cui si mescolano sentimenti opposti, affetti profondi e rifiuti spietati.

 

Maria Paola Forlani


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