Era il 4 settembre 1618, e la sera stava scendendo su Piuro.
Tutto era tranquillo, sospeso come solo la montagna sa esserlo: ogni cosa accarezzata dal languore della luce del tramonto.
Il Mera scorreva sotto i ponti del paese e la strada del Settimo, trafficata di carri fino a poco prima, adesso era deserta.
Le chiese di San Cassiano – la più importante di tutte, con il suo bel tabernacolo sull'altare maggiore, le tombe in marmo alle pareti –, di San Giovanni e di Santa Maria erano vuote, in attesa della messa del giorno dopo.
Nel Palazzo Vertemate Franchi zampillavano i giochi d'acqua e i pesci nuotavano nell'acquario, mentre il padrone cenava in una delle ricche sale decorate d'oro e affrescate. Così come si mangiava al castello o nelle due osterie del borgo, dove due milanesi di passaggio pianificavano il viaggio dell'indomani verso i Grigioni.
Gli abitanti, dopo la solita giornata di lavoro nei campi e nei pascoli, nelle botteghe e nelle cave di pietra ollàre, erano chiusi nelle loro case. Tutti, tranne Francesco Forno, oste dell'albergo Corona, che insieme al muratore Simone Ramada si trovava in un crotto per prendere del vino. E Battista Planta, che stava raccogliendo le ultime pesche della stagione.
Furono loro, oltre a una donna che con i suoi due bambini era in un vigneto e un uomo che stava falciando l'erba, tra i pochi a salvarsi. Perché, all'improvviso come sempre, dal monte Corno si staccarono tre milioni di metri cubi di pietre e massi provocando uno spostamento d'aria forte come un tornado.
Il paese traballò fin dalle fondamenta, poi venne sepolto. Tutto era durato un attimo: qualche secondo prima c'era la vita, adesso solo il silenzio che segue la tragedia. Piuro non esisteva più, così come i suoi mille abitanti: tra loro, il signor Vertemate che quando venne ritrovato, secoli dopo, aveva ancora il tovagliolo al collo.
Grazie alla sua posizione strategica, alla tenera pietra ollàre, ai suoi intraprendenti abitanti che avevano intrecciato relazioni commerciali ovunque, Piuro era una città ricca e molto conosciuta. Perciò, nei mesi successivi, la sua morte riecheggiò in tutta Europa, proprio come era accaduto per un'altra città marchiata dallo stesso destino: Pompei.
Intanto, sotto la direzione del commissario grigione di Chiavenna, Fortunato Sprecher, erano iniziati gli scavi. Otto squadre di otto uomini ciascuna cominciarono a lavorare alacremente per riportare alla luce quello che si poteva. Qualcosa venne trovato subito, ma anche nei secoli successivi la frana continuò a restituire reperti, come per non far dimenticare l'accaduto.
Solo nel 1960, a Berna si costituì un comitato che si poneva l'obiettivo di scavare – finalmente – con metodo scientifico e mezzi moderni. Ed è soprattutto per merito suo, dell'Associazione italo-svizzera per gli scavi di Piuro presieduta dal competente e disponibilissimo dottor Gianni Lisignoli, se adesso possiamo parlare di questa disgrazia sconosciuta. Sì, perché nonostante la portata dell'evento, la storia di Piuro la conoscono in pochi. E non parliamo solo di Italia, di Lombardia o dei tanti milanesi che capitano da queste (bellissime) parti, ma pure degli stessi abitanti di Valchiavenna, Valtellina e Valcamonica.
A tutti, si consiglia innanzitutto di visitare il Museo di Piuro situato nella sacrestia della chiesa di Sant'Abbondio, il cui vicino campanile giace spettacolarmente semi-sepolto a causa di un'alluvione provocata dal torrente Valledrana qualche decennio dopo la frana (una zona non particolarmente fortunata, questa...).
Parte integrante del Sistema Museale della Comunità Montana della Valchiavenna, il Museo racconta dettagliatamente la vicenda attraverso stampe d'epoca, foto e pannelli: particolarmente impressionante quello che mostra il paese (in tutti i suoi dettagli) prima e dopo, quando al suo posto si formò persino un piccolo lago. Non mancano poi numerosi reperti, tra cui la campana della chiesa di Santa Maria, resti di spade, un medaglione in oro, monete di Venezia e Milano (con impresso Galeazzo Maria Sforza), 53 canne in pietra ollàre che formavano l'acquedotto, catenacci, lumi ad olio, pinze per pallini da schioppo, utensili che si trovavano in cucina quando tutto finì. Oggetti storicamente preziosissimi, anche se quello che rimane più impresso è lo scheletro ricomposto di una persona, con le mani in avanti per proteggersi dalla frana, rinvenuto nel 1966. Guardandolo, intuiamo la sua umanità, la sua vita che finisce in un momento. La sua paura di morire, che poi è anche la nostra.
L'area archeologica di Belfort è il secondo luogo che si deve assolutamente visitare perché vi si trovano dei resti di un importante palazzo commerciale che venne preservato dalla frana: ultimo edificio verso la Svizzera, da esso si poteva vedere tutta la valle fino a Chiavenna. Anche in questo caso dei pannelli esplicativi ci facilitano la conoscenza di un sito che, con le sue rovine immerse nella vegetazione, emette una particolare suggestione. Inevitabile pensare che da qui, quando accadde il disastro, qualcuno assistette a quel terribile spettacolo.
Saludi
Mauro Raimondi
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