Cinquecento proverbi in milanese raccolti in un libro. Il che, basterebbe ad attirare l’attenzione e la curiosità. Ma questo, per Enrico Casati, Guglielmo Scandolara e Roberto Villa, non era sufficiente. E allora hanno voluto “esagerare” traducendoli in inglese, francese, tedesco, spagnolo e persino in russo, arabo, cinese e giapponese.
Così è nato Omnibus. Proverbi e modi di dire per vecchi e nuovi milanesi (Fratelli Frilli Editori, 469 pagine, 14,90 euro), un volume che – innanzitutto – ha il grande merito di mantenere viva la fiamma di quel dialetto che tutti noi milanesi abbiamo l’obbligo di riattizzare continuamente per la sua valenza storica e affettiva, evitando inoltre che venga strumentalizzata a fini politici.
Nello stesso tempo, però, Omnibus è anche un libro internazionale, in quanto contribuisce a far conoscere la cultura popolare milanese ai tanti stranieri che vivono o transitano per una città in piena Expo. I quali, senza dubbio, riconosceranno nei detti in meneghino i loro, sentendosi così un po’ più vicini a noi: una “comunanza” che sarebbe bello toccasse anche gli italiani, che negli ultimi decenni hanno dimenticato cosa voglia dire emigrare in terre lontane (e spesso ostili).
Infine, Omnibus – di cui segue la prefazione – è pure un testo divertente, perché permette a chi conosce qualcuna di queste lingue di rivisitarle in modo inaspettato e originale attraverso l’irresistibile e intramontabile fascino dei proverbi.
I francesi dicono: “Abondance engendre arrogance”. Noi milanesi, che siamo un po’ meno raffinati: “Quand che la merda la monta in scagn o la spussa o la fa dagn” (proverbio 10). E il transalpino “Il n'y a pas d'amour sans jalousie”, sotto la Madonnina diventa “Amor e gelosia se fan semper compagnia” (161).
Gli inglesi, invece, affermano che “When the cat is away, the mice will play”, in pratica la traduzione del nostro “Via la gatta, ballen i ratt” (223). Mentre il meneghino “l’è mej on usell in man, che on pollon in aria” (302), sembra copiato dal proverbio siriano che recita: “Meglio un solo uccello in mano che dieci sull’albero”.
È senz’altro istruttivo e pure divertente confrontare come le lingue nazionali abbiano rielaborato circostanze simili, sintetizzandole in frasi brevi ed argute. Facendolo, scopriamo l’universalità dei proverbi, il motivo per cui sono riusciti a vincere i secoli giungendo indenni ai giorni nostri. Un “miracolo” che non deve stupirci: con le loro piccole grandi verità e la loro sobria saggezza, infatti, i proverbi sintetizzano – con il sorriso sulle labbra e la falce in mano – quel patrimonio comune di momenti belli e brutti (l’amore, la morte, la malattia), di relazioni fondamentali (l’amicizia, il matrimonio, la famiglia), di comportamenti e paure che si vivono a qualsiasi latitudine, senza dimenticare le domande fondamentali della vita. Oppure, le situazioni economiche, politiche, sociali comuni a ogni parte del mondo: il mondo agricolo e la sua osservazione del tempo meteorologico e degli animali, la povertà e la fame contrapposte alla ricchezza, il rapporto con il potere. Senza azzardare troppo, si può affermare che i proverbi fanno parte dell’inconscio collettivo che lega tutti quanti, su questo pianeta, e perciò sono eterni.
Tuttavia, il fascino dei proverbi sta anche nel loro stretto legame con il territorio, che viene esaltato dall’uso del dialetto. Sinceramente, da appassionato divulgatore di storia e cultura meneghina, spero di cuore che in futuro sopravviva qualcuno in grado di leggere le opere immortali di Carlo Porta e di Delio Tessa. E non posso fare a meno di intristirmi constatando che della “parola parlata” da millenni dai milanesi venga ormai utilizzato solo qualche espressione o vocabolo che ogni tanto inseriamo nell’italiano corrente. Il resto, cioè tutto, spazzato via da quel tornado che negli ultimi decenni ha raso al suolo il milanese dai bar, dai tram e dalle strade della città (da cui lo apprese il genovese Franco Loi), confinandone l’utilizzo agli ultrasessantenni o ai sentimentali. Sì, sentimentali, perché il dialetto ha innanzitutto un valore affettivo, oltre che culturale. E nient’affatto politico (almeno in questo momento storico), come qualcuno a caccia di voti ha demagogicamente cercato di far credere strumentalizzandolo. Ascoltandolo, è come se risentissimo i nostri genitori, i nostri nonni. Ed è la loro voce, quella che ci accompagna quando leggiamo quelle frasi che si possono leggere nel libro.
Perciò, i volumi come quello di Enrico Casati, Guglielmo Scandolara e Roberto Villa assumono un valore particolare, perché rappresentano la memoria sia individuale sia collettiva di tutti noi, e contribuiscono a tenerle in vita. “Omnibus”, difatti, ci narra gli usi e i costumi dei nostri concittadini d’antan, il loro carattere ma anche la nostra storia, visto che gli autori hanno inserito proverbi che giungono da epoche lontane come quella longobarda o spagnola. E risponde ad un’esigenza che l’editore Vallardi sentì già nella prima metà dell’800, quando pubblicò una delle primissime raccolte a riguardo. L’idea ebbe fortuna e altri lo imitarono, ma fu Eugenio Restelli ad ottenere un clamoroso successo quando, nel 1885, si prese la briga di unire alcune frasi che Carlo Maria Maggi aveva inserito nelle sue opere teatrali (del ‘600), le citazioni che Francesco Cherubini aveva proposto nel suo immortale “Vocabolario milanese-italiano” (della prima metà dell’800) e infine quei proverbi che ai suoi tempi si sentivano abitualmente. Tutto si muoveva a una velocità mai vista, in quel periodo, la città cambiava drasticamente, e forse Restelli comprese la necessità di fissarli su carta, quei modi di dire, prevedendo che in futuro nulla sarebbe più stato come prima.
“I Proverbi Milanesi” di Restelli costituiscono la base a cui si ispirarono altri autori, tra cui ci limitiamo a citare Severino Pagani (1943, Ceschina) e in tempi più recenti Franco Fava, Leonida Villani, Caterina Santoro e Valentino De Carlo. Perciò “Omnibus” si inserisce a pieno titolo in un filone consolidato, riproponendo vecchie pillole di saggezza e aggiungendone di poco conosciute. La sua originalità e importanza, rispetto ad altri testi analoghi, sta nello spiegare chiaramente il significato dei proverbi, alcuni di non facile interpretazione come il celebre “Tiremm innanz” (23), che in molti usano – per fortuna – senza però sapere la sua origine risorgimentale.
Rinunciando a racchiudere i proverbi in capitoli tematici, il libro privilegia la scorrevolezza della lettura e l’intersecarsi degli argomenti: cibo e stagioni, soldi e salute, donne e amicizia, Santi e religione, fortuna e sfortuna, animali, caratteri delle persone. Senza ovviamente dimenticare “Milan e poeu puu” (225), con le sue opportunità che bisogna saper cogliere (“A Milan, anca i moron fann l’uga”, 109), la sua operosità (“La cusinna a Milan, la cort a Roma”, 232), il suo Duomo (“El Domm l’è minga sta faa in on dì”, 448) e i suoi quartieri: il celebre “Va’ a Bagg a sonà l’orgen” (103) o “L’è on musegh de Lambraa” (96), che tanto ricorda i tre musicisti “balabiott pescâ föra Lambrâ” che Franco Loi ha citato ne “L’Angel”.
Gli autori concludono il loro percorso con un impagabile “Se po’ fa tasè la verità, ma con el rimors come se fa?”. Per quanto mi riguarda, dopo essermi complimentato con loro per il lavoro di ricerca, selezione e spiegazione svolto, preferisco un altro proverbio che mi permette di ricordare a tutti un grande milanese, Enzo Jannacci, che con il suo palo dell’Ortica ha reso indimenticabile il detto “Restà lì come quell de la mascherpa” (323).
Congedandomi, mi permetto di rivolgere un invito-preghiera a tutti i lettori: impariamone qualche decina, di questi proverbi, e citiamoli in ogni occasione, facendoli imparare a memoria a nipoti e amici. Usiamoli, insomma. Sopravviveranno loro. E sopravviverà una parte importante di Milano. E quindi, di noi stessi.
Saludi
Mauro Raimondi