Massimo Recalcati
Le mani della madre
Feltrinelli, 2015, pp. 192, € 16,00
Tu non sei più vicina a Dio
di noi; siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare in te dal manto,
luminoso contorno:
io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la pianta.
(Rainer Maria Rilke, Le mani della madre)
Non si finisce mai di nascere…
E ora tu sei, e ora io sono e noi siamo
un mistero che mai più accadrà di nuovo
un miracolo che mai prima è accaduto…
Così scriveva nel secolo scorso il poeta statunitense E. Estlin Cummings anche se in ogni epoca e a tutte le latitudini artisti, letterati, psicologi, studiosi sono stati attratti dal fascino della nascita e della maternità così congiunte al mistero della vita.
Né a tale fascino si è potuto sottrarre lo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati, il quale, dopo essersi interessato ed argomentato sulla figura del padre e del figlio, in Le mani della madre analizza accuratamente la figura materna alla luce - scrive - «della filiazione simbolica che il nostro tempo ci costringe a ripensare».
Un testo strettamente psicoanalitico sul piano dei contenuti in una prosa semplice e al tempo stesso rigorosa; riflessioni ampiamente accompagnate non solo da riferimenti ad altri psicologi e psicoanalisti ma anche da letture di romanzi e di un nutrito numero di film, in uno stile che corrisponde allo spirito del libro: arrivare al cuore della funzione materna senza mistificazioni ma con il desiderio esplicito di ripristinare la potenza fondamentale del desiderio della madre.
Affiora nel lettore la percezione che Recalcati affronti l’argomento con delicatezza, col pudore e il rispetto che la sacralità dell’evento richiede perché «la nascita di un figlio non è solo la venuta al mondo di qualcuno di cui attendavamo di vedere il volto o di stringere tra le braccia. Insieme alla vita del figlio viene nuovamente alla vita il mondo… il dono della vita è un dono che fa ricominciare il mondo…»
Un viaggio nella maternità attraverso un itinerario di difficile equilibrio tra essere e non essere, tra presenza ed assenza e ci vuole un grande amore come quello che sa dimenticare il proprio io latente fino a quando la missione è compiuta.
In altri termini la funzione materna si sostanzia nell’essere capace di rinunciare, a tempo debito, al possesso del figlio. La madre più autentica e buona non è quella che s’identifica con il figlio, né quella che non si è conciliata con il suo essere donna e che pensa solo a sé in modo narcisistico: è invece quella che capisce che deve dare al figlio il dono della libertà, abituarlo anche alla sua assenza, per creare in lui una spiccata, autonoma individualità.
Una disamina ampia ove si rivisitano alcuni topos, dalla Bibbia (le due madri e il giudizio di Salomone, la vecchia e sterile Sara) alle gravidanze miracolose del Nuovo Testamento (quella di Elisabetta e della Vergine Maria) al fine di evidenziare la maternità come apertura all’altro, apertura al mondo perché «la maternità non è solo un accadimento che colpisce il corpo, ma un andare verso un’apertura. Essere madri non significa coltivare il proprio, ma aprirsi all’Altro».
Un pensiero questo che mi richiama alla mente alcune considerazioni lette in Sperare per tutti dello studioso svizzero Hans Urs von Balthasar (Jaca Book 1997):
… Il bambino è consapevole, sin dal suo aprire gli occhi della mente.
Il suo “io” si risveglia nell’esperienza di un “tu”: nel sorriso di sua madre, da cui impara che è contenuto, confermato ed amato, in una relazione incomprensibilmente avvolgente, già attuale, protettiva e nutritiva…
In realtà è sempre nella relazione con l’altro che il nostro io sboccia e fiorisce.
E il punto di partenza sta proprio in quel contatto primordiale, in quel sorriso, in quell’abbandono sereno con la madre, un’esperienza decisiva per sapere che solo con l’altro tu sei ed hai la vita, la felicità, l’amore.
«Il mondo dell’Uno» sottolinea Recalcati «è sovrastato dal mondo del Due perché una nascita è sempre un evento del Due e mai dell’Uno… è sempre un’esperienza radicalmente plurale. Per questo nasciamo tutti nell’oscurità, ciechi privati della luce del mondo attendendo la luce che viene dalla parola dell’Altro, dal fuori del ventre materno. Far nascere un figlio (…) è già da sempre perderlo, riconoscerlo come pura trascendenza, generarlo come un’alterità.
Non si finisce mai di nascere, non si finisce mai di ricominciare perché infinite volte si può fare esperienza della liberazione dal buio della notte cieca dell’Uno».
Certamente l’altro… gli altri… possono anche rivelarsi… un inferno, possono diventare i nostri nemici, come sosteneva Sartre, ma solo nel confronto e nel rapporto con l’altro diventiamo persona, un essere aperto e non una piccola cellula isolata e senza respiro.
Giuseppina Rando