Frequentatore abituale (italiano) di una prostituta (rumena, 32 anni) le frattura viso e cranio a colpi di chiave a croce (attrezzo per i bulloni dei pneumatici); tornato a casa si suicida: forse, ipotizzano gli inquirenti, convinto di averla uccisa.
La Repubblica, 18 agosto 2015:
“Credeva di aver ucciso l’amica prostituta: si impicca l’aggressore di Volpiano”
L’articolo con questo titolo ci spiega che Mauro Cabodi, agricoltore di 38 anni «si era invaghito di lei» e che ha assalito la donna perché «respinto».
Dovete anche sapere che, «da almeno un anno», lui «era un cliente e fino a ieri non aveva mai dato problemi», l’unico problema è che «la voleva tutta per sé per una notte: la donna avrebbe rifiutato o comunque gli avrebbe proposto una cifra per lui inarrivabile. Da lì la situazione è poi degenerata (…)». Cioè, chi ha scritto l’articolo NON SA quel che è accaduto: da qui l’uso del condizionale. Ma anche non sapendolo, ha inventato una storiella per noi, la solita: un uomo tranquillo, che se utilizza regolarmente un altro essere umano a scopo sessuale ne è come minino amico, si innamora della donna utilizzata al punto di voler passare tutta una notte con lei – con lei che fa quel che lui le dice di fare, perché paga: ma lei si nega, scatenando il maligno raptus che non l’ha uccisa per un pelo e che lascerà segni permanenti sul suo volto. Vogliamo riassumere la vicenda e contare quante volte l’abbiamo già sentita, non solo in contesti di prostituzione, ma anche domestici, di coppia, sociali? La puttana gli ha detto di no. La puttana ha provocato la violenza dell’uomo. È colpa della puttana se il poveretto, che era suo amico e ne era invaghito e voleva solo passare più tempo con lei, è morto.
Anche al Corriere della Sera (18 agosto 2015, stessa vicenda) sono convinti sia andata così:
«Ha tentato di ucciderla soltanto perché desiderava che il rapporto sessuale, appena consumato in macchina, durasse più a lungo. Dopo averle spaccato le ossa del viso e del cranio, l’ha lasciata a terra, insanguinata, sul ciglio della strada. Poi, a casa, si è ammazzato impiccandosi. Perché di quella donna, che fa la prostituta, era innamorato. Voleva che lei diventasse la sua unica amante».
Nemmeno chi ha scritto questo ha cognizione di causa sull’accaduto o sui sentimenti dell’aggressore/suicida, ma pensa – a ragione – che la narrazione sia abbastanza familiare ai lettori per non aver bisogno della protezione del condizionale. Di certo dev’essere andata così, perché «i rapporti sessuali tra i due erano molto frequenti» e «lei gli aveva lasciato il numero di cellulare»: «Questa attenzione, e la frequenza degli incontri, hanno innescato nel potenziale assassino la convinzione che quella relazione a pagamento potesse trasformarsi in un rapporto d’amore. O di possesso esclusivo».
Amore e possesso non sono esattamente sinonimi o meglio, non dovrebbero esserlo. Ma, ripeto, quante volte avete sentito questa storia fra coniugi, ex coniugi, fidanzati, ex fidanzati, eccetera? La puttana gli faceva credere di essere sua. Non è stata abbastanza prudente, come migliaia e milioni di altre donne, prostitute o no: con il suo comportamento ha innescato la bomba a tempo che ogni uomo – in questa narrazione – è nei confronti di ogni donna. Maneggialo male ed ecco quel che succede. È colpa tua, brutta troia.
Gentili redazioni dei quotidiani citati (e del 99% degli altri quotidiani italiani), la mia piccola voce vi chiede da anni di riportare gli standard di professionalità nel giornalismo a livelli accettabili, di dare notizie e non fantasie in un italiano decente, di controllare in particolar modo i pezzi sulla violenza contro le donne perché è facilissimo giustificarla e rendersene complici per mera superficialità. Se anche mi avete udita, di certo non mi avete ascoltata. Ma io non mollo. Oggi ho un’ulteriore richiesta da porre: che ne direste di un po’ di formazione professionale sull’amore?
Forse, trattandosi di un argomento così popolare, i vostri giornalisti parteciperebbero più volentieri ad un seminario sull’amore che a un seminario sulla violenza di genere. E potrebbero finalmente imparare che chi ama qualcuno, da amico o da amante, non gli sfascia la testa. Che ricevere un rifiuto è normale e consuetudinario nella vita degli esseri umani e che riceverlo essendo maschi non significa niente di più e di diverso del riceverlo essendo femmine: non si diventa “meno uomini” o “meno donne” perché qualcuno ci ha detto di no. Che amare e possedere sono concetti distanti anni luce e confonderli genera inevitabilmente violenza. Che un padrone può amare uno schiavo solo se e quando questi due ruoli svaniscono: l’amore si dà fra liberi e eguali, è un’estasi di gratitudine e rispetto e condivisione e consenso. Per amore non si picchia. Per amore non si uccide. Per amore si vive.
Maria G. Di Rienzo
(da Lunanuvola's Blog, 20 agosto 2015)