Centocinque sculture dell’artista inglese, uno dei più apprezzati scultori viventi, sono state ambientate nell’architettura cinquecentesca del Forte Belvedere di Firenze dal 26 aprile al 27 settembre (martedì-domenica ore 10-20 ingresso libero).
«Sono un omaggio a tutte le vittime del Novecento, un messaggio di pace», secondo Gormley, che afferma: «è importante accettare la tragedia ed è altrettanto importante guardare al futuro, riportare questo luogo ai fiorentini, senza essere schiavi della tristezza». Gli imponenti Humans di Antony Gormley esprimono forza e parlano di pace «per le vittime di tutte le guerre e le tragedie del secolo».
La mostra, a cura di Sergio Risaliti e Arabella Natalini e organizzata da Muse e Once, si compone di 105 “sentinelle” a guardia del Forte, che per la sua storia è stato un Forte di pace. Sono presenti tre tipi di opere: i corpi umani naturalistici, quelli trasfigurati in Blockworks e la celebre installazione Critical Mass, realizzata nel 1995 e definita dall’artista un «antimonumento che evoca tutte le vittime del XX secolo».
«Abbiamo trasfigurato lo spazio» prosegue l’artista londinese «in modo che il Forte rappresenti oggi più che mai un nuovo umanesimo, dove non è più l’uomo al centro del mondo ma il mondo al centro dell’uomo».
Gli Humans, plasmati nel ferro, dipinti di nero, tutti simili e tutti diversi, li trovi dappertutto: all’esterno sui bastioni, affacciati come vedette sulla città, riversi sulle scalinate come appena caduti o abbattuti. Qualcuno si erge fiero in piedi, altri sono accucciati, oppure piegati su se stessi, stancamente appoggiati alle mura, una fila di Humans disposti in senso “evolutivo” partono dal centro del bastione centrale fino all’angolo destro, da cui si gode il più sorprendente panorama della città; li trovi anche all’interno delle stanze della Palazzina e nell’antico deposito della polvere da sparo.
Una umanità che ha qualcosa di alieno e di robotico al contempo, soprattutto osservando i Blockworks, sagome in cui l’anatomia umana è restituita attraverso una serie di volumi geometrici, ricomposti con esattezza grazie al computer. Secondo Gormley sono «fossili prodotti industrialmente», nati da una strategia «non emotiva ma scientifica… voglio che le figure celebrino le pose del corpo umano e ci invitino a riempirle basandoci sulla nostra esperienza». L’artista frammenta le forme del corpo umano in modo tale che tocchi a noi ritrovare in noi stessi l’architettura per ricomporle.
Una installazione emblematica che ha prodotto in me un’alta intensità emozionale come se stessi assistendo impotente a una tragedia silenziosa che evidenziava la vulnerabilità degli esseri umani in preda al dolore, alla morte e all’incapacità di comunicazione. Ho pensato al modo in cui ci poniamo nei confronti degli spazi che ci circondano e nei confronti della natura, al rapporto tra il nostro corpo e quello degli altri e alla complessa relazione che lega ognuno di noi al tempo.
Mi auguro che la mostra aiuti a riflettere e a interrogarsi sui grandi quesiti esistenziali e riporti nella sensibilità di chi la visita il senso dell’essere, mettendo nuovamente al centro i grandi temi dello stare al mondo, oggi più che mai indispensabili e ineludibili.
Nella sua opera Antony Gormley cerca continuamente di identificare lo spazio dell’arte come luogo del divenire in cui possono nascere nuovi comportamenti, pensieri e sentimenti.
Scrive Edgar Morin nel suo libro La Via: «Le due principali minacce per la società e per gli esseri umani sono: una, esteriore, che risulta dal degrado ecologico dell’ambiente; l’altra, interiore, che procede nel deterioramento della qualità della vita e nella metastasi dell’Ego».
Alessandra Borsetti Venier