Da una quindicina d'anni, grazie a Berlusconi e Fini (guardate cosa mi tocca scrivere!) l'Italia ha interrotto la propria preferenza di relazioni incondizionate col mondo arabo per recuperare terreno, e decine di occasioni perse sotto tutti i punti di vista, nei confronti di Israele e, lasciatemelo dire, degli ebrei (anche in italia).
Fosse stato per il mio Partito politico, quello Radicale, l'unico in Italia (ma forse al mondo) che insiste con la necessità di ricordare e recuperare la portata politica e culturale del sionismo, tutto ciò sarebbe già stato avviato dopo la Seconda Guerra Mondiale, e sicuramente all'indomani della prima intifada. C'è invece voluto uno dei peggiori governi italiani degli ultimi anni per trovare il coraggio di rompere il tabù “anti-israeliano”.
A parte questo avvicinamento a Gerusalemme, e sicuramente qualche affare di cui non si conoscono bene i dettagli, i governi Berlusconi hanno sottolineato la sacrosanta necessità che gli israeliani vivessero in sicurezza, si sono accodati acriticamente al “due popoli, due stati”, ma non si son mai soffermati sul come perseguire la prima né favorire il secondo.
Il 21 e 22 luglio, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi sarà in Israele e Palestina dove visiterà lo Yad Vashem, interverrà alla Knesset, parteciperà ad un evento su innovazione e start-up all'Università di Tel Aviv, visiterà la Basilica della Natività a Betlemme. Tra gli incontri bilaterali previsti, quelli con il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e con il Presidente palestinese Mahmoud Abbas.
Comunque la si pensi su Israele o sul governo di Netanyahu, io concordo col Presidente Obama: mai abbandonare il primo e porre francamente i dovuti disinguo al secondo su tutte le questioni necessarie. Tra queste oggi ci sono i rapporti dell'Occidente con Teheran.
Comunque la si pensi su quanto negoziato dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e l'Iran sul nucleare bellico della Repubblica islamica, anche qui mi par difficile non concordare con Obama: l'accordo è basato sulla verifica e non sulla fiducia.
Ciò detto, è indubbio che in Israele la prospettiva di un Iran che stringe patti con Stati uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna, più la Germania, desti diverse preoccupazioni e non solo dal punto di vista della sicurezza.
Dobbiamo proprio alle preoccupazioni di autodifesa degli israeliani, geograficamente il paese “Occidentale” più vicino all'Iran, il fatto che la Repubblica islamica oggi non abbia l'atomica - un virus sviluppato dagli hacker governativi di Tel Aviv ha bloccato i progetti bellici di Teheran sei anni fa. Però, per quanto comprensibili possano essere i timori di Israele nei confronti della politica da Giano bifronte di Teheran, a oggi le alternative di contenimento delle mire atomiche di quel paese erano solo un altro attacco cibernetico multiplo col rischio di ritorsioni belliche di migliaia di truppe regolari e para-militari molto ben armate e sempre più presenti e attive in tutto il Medio Oriente.
L'accordo sul nucleare con l'Iran non è che un inizio: un inizio di dialogo basato sul pacta sunt servanda, un inizio di interscambio commerciale (in entrambe le direzioni) e, si spera, finalmente un inizio di attenzione permanente non solo alle centrifughe ma anche al rispetto dei diritti umani di quasi ottanta milioni di iraniani. Dopo questo inizio che riguarda l'Iran occorre, come seconda preoccupazione, pensare a Israele con la stessa “creatività” con cui s'è coinvolta Teheran e, in terza battuta, ma qui le cose si intricano e complicano maledettamente, a tutto il Medio Oriente (di quest'ultima parte se ne riparlerà).
Lo “Stato ebraico” - assieme alla Turchia - continua a essere un raro esempio di come sia possibile un minimo di dinamica democratica malgrado il contesto di conflitto patente, o se preferite permanente, circostante. Una democrazia che non è solo elezioni ma una democrazia che è un sistema istituzionale dove, pur con tutti i problemi di erosione della legalità costituzionale delle democrazie “moderne”, o come dice da qualche anno Marco Pannella “reali”, c'è ancora un'esigua possibilità che i diritti individuali possano esser goduti con lotte politiche oppure grazie al ricorso alle giurisdizioni. Una democrazia che è in tensione quotidiana con aggettivazioni nazional-religiose e che stenta a esser ancorata allo Stato di Diritto internazionale, ma pure sempre una democrazia che ha una delle classi intellettuali più vivaci e indipendenti del mondo, una società civile che non ha niente da imparare da nessuno e dove, con l'assenso delle autorità locali, i silenziati della regione trovano riparo e un futuro migliore.
Dopo lo psicodramma continentale del debito greco, le quotidiane beghe sul numero dei rifugiati da redistribuire dopo che li si è tratti in salvo dal Mediterraneo e la firma dell'accordo sul nucleare iraniano, occorre che l'Unione europea si ponga un problema esistenziale.
Già, perché in questi ultimi 25 anni non è passato giorno in cui non ci sia stato motivo di biasimare l'“Europa”. Certo, le è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace, ma a ben vedere si tratta di un riconoscimento del tutto immeritato o all'idea originaria. Sotto i suoi occhi la vicina Jugoslavia si è dilaniata, il “mare nostrum” è diventato la più grande fossa comune della storia moderna, e un po' dappertutto imperano populismo, egoismo, demagogia se non una vera e propria “reazione”...
Sí, ma tutto questo cosa c'entra con la visita di Renzi in Israele?
A più riprese, e da diverso tempo, Matteo Renzi si è dichiarato europeista, e non solo a seguito del (presunto) successo del suo Pd alle europee del 2014; se però vuol iniziare a esser preso in seria considerazione politica a livello continentale, e non solo in Italia per le dichiarazioni stampa di rito a seguito delle riunione del Consiglio europeo che gli vengono trasmesse a reti unificate, occorre che si assuma la responsabilità politica di passare da vuote espressioni tipo “generazione Erasmus” a un recupero pienamente politico del progetto federalista europeo.
Malgrado le autocritiche e la solidarietà umana col popolo greco di queste ultime settimane, tra i 28 Stati membri dell'Ue non mi pare che abbondino convinzioni federaliste; ci vuole quindi uno “straniamento” una “rottamazione” dei timori “social-burocratici” o del “neo-sovranismo” imperante e per far ciò sollevare la questione in un paese che, malgrado tutto - o forse a sua insaputa - resta fortemente attaccato all'Europa, e non solo per via della seconda cittadinanza di una buona metà della sua popolazione, potrebbe esser la scossa buona alla paralisi politica continentale.
L'Europa politica può nascere se si confronta con chi, al suo esterno, non ha tutti i paracaduti (o le paraculate) che hanno consentito quello che è successo con la Grecia due settimane fa: Israele è il partner ideale per porsi un problema esistenziale. Ma bisogna volerlo e quindi provarci.
Marco Perduca
(dal suo Blog su L'Huffington Post, 21 luglio 2015)
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