Una qualifica spesso attribuita a registi cinematografici dallo stile visivo marcato e riconoscibile, è quella di “visionari”. Ma chi è il visionario? Chi vede ciò che, almeno qui e ora, non è fuori di lui, ma è dentro di lui. Il visionario è dotato insomma di un’interiorità fertile di visioni. In effetti, ogni buon regista è un visionario, se un’immagine ha un valore artistico quando è permeata dell’interiorità – dei sentimenti – di chi l’ha creata. Ma comunemente si dicono “visionari” soltanto quei registi di gusto fantastico o surrealistico.
È un visionario dichiarato, ostentatamente tale, Peter Greenaway, del quale la casa di distribuzione Teodora ha portato meritoriamente nelle sale: Eisenstein in Messico.
Come il titolo suggerisce, si racconta del grande regista sovietico Sergej Eisenstein, in missione in Messico negli anni Trenta, per realizzare un film: Que viva Mexico!
La fama di Eisenstein è legata, fra gli altri, ad alcuni film di propaganda comunista bolscevica (come Sciopero, Ottobre, La corazzata Potiomkin): schematici ed elementari nel contenuto, come esige la propaganda; ma originali, sperimentali nella forma.
L’Eisenstein di Greenaway è deliberatamente deprivato di idealismo rivoluzionario. Ciarliero, vanitoso, eccentrico, bibliofilo vorace, cultore e collezionista di arte, è fondamentalmente un esteta, un dandy alla maniera di Oscar Wilde.
Come a mimare lo sperimentalismo dei suoi film, Greenaway, nello stile a lui consueto, dispiega scenografie dai forti connotati teatrali, marcatamente artefatte, che sembrano a volte uscite da un incubo; scompone lo schermo come un patchwork, mettendo ad esempio a confronto le immagini dell’Eisenstein reale con il personaggio di finzione; fa muovere i suoi attori ora come in una comica ora come in un balletto di ubriachi.
Il suo film somiglia a una pioggia di coriandoli, fantasmagorica, che incanta a un primo colpo d’occhio, ma la cui suggestione svanisce presto dalla nostra memoria.
Tanta leggerezza, tanta evanescenza contrasta però con un elemento del racconto, concreto e vero: il sesso. Eisenstein giunge vergine in Messico e perde la verginità ad opera di un giovane del luogo che gli fa da guida. La scena della sua iniziazione sessuale – una scena di sodomia – giocosa e crudele, potentemente carnale, è una delle più belle scene di amore omosessuale che si siano mai viste al cinema.
Sulla carta, non si scommetterebbe sulla qualità visionaria di Ruth e Alex di Richard Loncraine, che ha il merito di riportare sugli schermi nel ruolo di protagonista Diane Keaton (affiancata da Morgan Freeman).
La vicenda sembra delle più comuni e del tutto realistica. Una coppia di coniugi che ha vissuto quarant’anni in un appartamento a Brooklyn, decide di venderlo per trasferirsi in un altro più adeguato all’età di entrambi, che non li costringa tutti i giorni a salire tanti piani di scale.
Ma nel momento in cui un corteo di possibili acquirenti sfila nel loro appartamento – e c’è chi si stende sul letto della loro camera, chi sul divano di fronte alla televisione, chi progetta di sbarazzarsi dei quadri dipinti dal padrone di casa nella stanza adibita a studio – i due sembrano assistere – come in una visione, appunto – a ciò che potrebbe accadere dopo la loro morte. E alla malinconia, o allo strazio, che proviene dal senso della provvisorietà delle cose umane, neanche il loro matrimonio, così solido e duraturo, può offrire un rimedio.
La morale conclusiva del film vorrebbe rassicurarci. E il racconto cade a volte nel sentimentalismo. Ma in più di un passaggio penetra nel film uno sgomento vero e poetico, per nulla edulcorato.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 15 luglio 2015)