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Educare all’arte? Domanda necessaria ma attualmente vana 
di Gian Luigi Zucchini
07 Luglio 2015
 

1. Che cos’è l’arte?

 

Innanzitutto, per affrontare la questione proposta dal volume dell’ALI (Associazione Liberi Incisori) 2015, e cioè Educare all’arte, occorre individuare l’oggetto della questione stessa. E lo si può fare ponendosi innanzitutto una domanda: “Che cos’è l’arte?”. E subito la risposta diventa difficile, forse impossibile. Da secoli, da millenni, l’uomo si è interrogato su che cosa sia l’arte, e come possa in qualche modo essere definita. Non c’è riuscito mai. A seconda dei tempi, e attraverso molteplici ragionamenti, si sostengono varie opinioni, che poi vengono successivamente modificate o addirittura cancellate, per lasciare il posto ad altre convinzioni, e ad altre diverse definizioni. L’idea dell’arte è dunque un processo che si modifica con il mutamento del pensiero umano. E allora il bello, o meglio ancora la bellezza, che cos’è? Anche qui, risposte impossibili. Ciò che era bello un tempo, oggi non lo è più, o viceversa. Non sempre, e non per tutto; ma per l’arte vale il principio che la bellezza può essere assai spesso soggettiva: non c’è una formula che possa determinare la bellezza o meno di un prodotto. Di solito si preferisce tentare una spiegazione mediante metafore, usando strategie lessicali o sofismi intellettuali: si dice, per esempio, che la bellezza è equilibrio, armonia, eleganza; oppure ordine visivo, o piacere della visione, o altro ancora. Ma sono definizioni generiche. Nel Seicento l’ideale della bellezza artistica, secondo il Bellori, era rappresentata dalle opere del ‘divino’ Guido, cioè Guido Reni; il quale poi divenne, nell’Ottocento, un pittore ‘da santini’: esteticamente, si sosteneva, valeva poco o niente: finché poi non fu rivalutato nei primi del Novecento, insieme all’arte barocca e particolarmente a quella bolognese di quell’epoca. Dunque, di che bellezza si trattava e/o si tratta?

E oggi, i concetti di cui si è detto, e cioè l’eleganza, l’equilibrio, l’armonia ed altro ancora, sono rispettati dall’arte? Neppur per sogno. Anzi, si impose nel Novecento l’art brut, cioè l’arte selvaggia, con Dubuffet che demoliva la plurisecolare idea del bello, e con le avanguardie che inventavano strategie diverse per demolire e riedificare secondo nuovi principi e nuove idee; e con il futurismo, qui in Italia, che azzerava tutto, per ricominciare dal nulla, o meglio, da ciò che in pittura non si potrebbe rappresentare, come la velocità, l’ardimento, la spavalderia, o anche l’effetto di alcuni sensi, come l’olfatto, o il gusto. E da qui, invenzioni e strategie per arrivare a rappresentare ciò che pareva impossibile, e che già l’impressionismo aveva tentato di esprimere attraverso la luce, che però era anche movimento, vibrazioni di ombre luminose, ma sempre però nella staticità, come anche la scultura, che invece avrebbe dovuto dare l’idea immediata del movimento, come tentò faticosamente di fare Boccioni, ad esempio, con un’opera che è addirittura impressa nelle monetine da 20 centesimi, per indicare la spinta dinamica, faticosa ma irreversibile, verso il futuro. E così, man mano che si avanza nella perlustrazione delle idee intorno all’arte, si arriva ad eccezionali altezze di pensiero e di conseguente rappresentazione, cioè al sublime, all’ineffabile, quasi un tentativo di rappresentazione del divino o dell’assoluto, per poi domandarsi: ed ora, dovendo comunque avanzare perché il tempo non concede momenti di sosta, che si fa? E poiché l’attimo, ancorché bellissimo, è fuggente e non si arresta, ci si convince che occorra ripensare tutto da capo e ritornare alle origini. Cioè, riprendere il pensiero artistico nei primi momenti in cui esso è sorto nella storia umana. Ma come è possibile ritornare a pensare, o addirittura ad essere, come l’uomo alle sue origini, senza l’accumulo di incrostazioni ideologiche e culturali con cui la civiltà ha rivestito l’originale intuizione umana?

Gauguin ci provò, andando a cercare nelle lontanissime isole nel sud del mondo, una verginità lontana delle sovrastrutture della civiltà; ci provò anche Henri Rousseau detto il Doganiere, rifacendosi in un certo modo ai disegni infantili; e intanto Freud metteva in luce i totem e i tabù che l’uomo si crea nell’inconscio, e che poi esprime nei comportamenti, obbligandosi a seguirli senza che alcuno gliel’abbia imposto; così anche l’arte si adegua, cercando di rappresentare ciò che è al di sopra, al di là della realtà: sur le realisme, o surrealismo. Picasso poi, ed altri artisti tra fine Ottocento e primi Novecento, riscoprono le maschere e gli amuleti delle tribù più selvagge dell’Africa o dell’Oceania recuperandone le forme ed elaborandole secondo criteri corrispondenti ad una particolare visione o meglio, concezione di arte ripensata in un diverso contesto storico e culturale. Paul Klee ed altri studiano il grafismo dei bambini, le immagini con cui essi spontaneamente rappresentano la realtà, addirittura lo scarabocchio tipico dei primissimi tempi di vita, come faceva l’americano Cy Twombly, scomparso nel 2011 (si veda, ad esempio, l’opera Panorama 1955, matita su carta). Subentrano, in questi studi e ricerche, scienze un tempo sconosciute, come la psicologia, la sociologia, l’antropologia culturale. Giorgio Celli, in una mostra che realizzò a Bologna nei primi anni ’60, e che intitolò “Alle origini dell’arte”, cercò addirittura di dimostrare che il comportamento artistico è non solo innato nell’uomo, ma è proprio della natura; e portava come esempio le danze diverse e meravigliose degli uccelli, varie e suggestive a seconda delle specie, però sempre uguali, ripetute nei millenni; e addirittura il concetto di equilibrio formale, quasi geometrico, della natura vegetale, e quello cromatico, variabile e immutabile al tempo stesso. Quasi a conferma, dunque, di quanto già sosteneva frà Luca Pacioli nel suo trattato del 1509, intitolato De divina proportione, a cui si ispirarono molti artisti, seguendo il principio di perfezione e di equilibrio che aprì poi la via a quella che il Vasari definì ‘pittura moderna’; principio richiamato ancor oggi, come dimostrano, ad esempio, le opere di Marco Tirelli, Eduardo Chillida (Elogio de la luz, 1990), di Fausto Melotti, ed altri.

Ma il ritorno all’origine, non potrebbe poi portare l’uomo a ripercorrere la stessa strada che ha percorso, arrivando agli stessi risultati a cui è giunto dopo secoli e secoli di ricerche e di prove? L’esperienza sembra dirci di no, perché alla base di tutto ciò c’è un comportamento umano, documentato scientificamente, che è stato definito ‘creatività’. E quindi avevano ragione gli antichi filosofi greci, che avevano intuito come nella natura umana ci fosse una spinta a creare utilizzando la materia disponibile secondo strutture varie e piacevoli. Idea che Giovanni Pascoli con acutissima intelligenza elaborò in quel saggio mirabile intitolato ‘Il fanciullino’, dove nell’apparente elementarità del termine si legge un mondo, un universo, perché ‘il fanciullino’ è tutto l’uomo, nella sua integrale essenza: intelligenza, ragione, corpo e fisicità, emozioni, intuizioni, sensi e trascendenza spirituale. E così si spiega anche come l’arte si sia manifestata fin dai primissimi tempi della vita dell’uomo sul pianeta. Infatti, che bisogno c’era di decorare con semplici fregi impressi sulla creta ancora molle i vasi che servivano per contenere i liquidi? E perché mai industriarsi nel cercare, forare, ordinare conchiglie fossili e no per infilarle una dietro l’altra e mettersele al collo, fin dal tempo del paleolitico? E perché, e con quale istintivo significato, utilizzare addirittura il proprio corpo per realizzare drammatizzazioni senza alcun senso apparente, colorandolo in modo vario, addirittura trafiggendolo in alcune parti, e poi ornandolo con piume, foglie, fiori, e infine torcendolo o muovendolo in modi ripetitivi sul ritmo insistente di percussioni primordiali? Cos’era, insomma, tutto ciò? Invenzione, intuizione, creatività… In una parola: arte, che diversamente nel tempo, era considerata volta a volta bellezza. Peraltro, finalizzata a qualcosa: a fini religiosi, sacrali, celebrativi, sociali, anche politici; e poi esclusivamente a niente, al gusto del bello, ideale o no, o secondo l’idea di bellezza di un determinato momento storico e culturale. Da qui, anche, la gratuità (o brutalmente, l’inutilità) dell’arte.

Torniamo ora al nostro tempo: che fanno molti giovani oggi? Si vestono in modo stravagante, portano jeans stracciati volutamente o a bella posta malamente rattoppati; si decorano il corpo sottoponendosi a dolorosi tatuaggi, addirittura si procurano ferite, per poi ricucirle e rappresentare tutto in video, che in seguito diffondono o espongono in mostre, dando origine addirittura a filoni artistici; si esercitano per ore in gruppo o singolarmente percuotendo strumenti esclusivamente in modo ritmico, utilizzando il più primitivo elemento musicale, cioè il ritmo, e non considerando le altre fondamentali componenti della musica, e cioè la melodia e l’armonia. E deturpano i muri con fregi o scarabocchi, o lettere vagamente strutturate: alcune orrende per uso elementarissimo del colore e della forma, altre più eleganti, decorose, perfino ‘belle’, cioè piacevoli. Ecco dunque che il discorso ritorna al principio: ad una specie di primitività comportamentale, o piuttosto elementarità delle idee, e quindi della domanda iniziale: che cos’è l’arte, che cos’è la bellezza?

Non si è data una risposta, perché credo non ci sia. In ogni momento storico, considerando ciò che la società sente ed esige o impone, si manifesta un fenomeno di ‘invenzione’, cioè creativo, che risponde a istanze e sentimenti proprio di quella società e di quel determinato tempo. Allora, non c’è differenza tra arte ed espressione grafica purchessia? Assolutamente no; c’è differenza, anzi, le due cose non coincidono affatto. Si cadrebbe nell’idea enfatica del neoidealismo gentiliano, che sosteneva essere il disegno dei bambini ‘arte infantile’. Quella del bambino non è arte, è semplicemente espressione naturale di quel particolare momento della vita. Un esempio? Alla pinacoteca di Verona c’è un dipinto, di G. Caroto (Ritratto di fanciullo con pupazzetto, 1523 ca), unico, credo, in tutta la storia dell’arte, che rappresenta un bambinetto di circa nove anni il quale mostra un suo disegno, in cui è rappresentato un omino. È praticamente identico a quello che i bambini fanno oggi: una testa, un corpo a forma di rettangolo piuttosto informale, linee orizzontali e verticali per le gambe e le braccia, e cinque lineette a destra e a sinistra per le dita. Chi ha insegnato al bambino a disegnare in quel modo? E perché sempre così? Studi sul disegno infantile hanno dimostrato le ragioni di questi fenomeni, che hanno sede addirittura nell’inconscio, quello che Freud definiva residui mnestici della memoria. Ma l’arte, allora? L’arte è la consapevole, ragionata presa di coscienza del fenomeno espressivo (può essere grafico, ma anche coreutico, sonoro, manipolativo, linguistico, da cui la poesia, la musica, la scrittura, ecc.) che l’uomo, se adeguatamente educato, riesce ad esprimere. Ed eccoci allora all’impegnativa proposta: “Educare all’arte”.

 

 

2. Pessimismo della ragione, o ottimismo della volontà?

 

Come, quando, perché, a quale età, cominciare l’opera di educazione? I latini, che erano razionalissimi e stringati al massimo, ponevano tre rigorosi interrogativi: Cur, Quomodo, Quando, che, come facilmente si interpreta, significano: perché, in qual modo, quando; cioè per quale ragione imparare o fare una cosa (finalità, di ordine filosofico); in che modo impararla e/o farla (strumentalità, di ordine didattico); quando impararla e/o farla (tempi opportuni, di ordine parzialmente psicologico). Così, nel tempo, si è cercato di rispondere, ma diluendo sempre più la questione in sofismi, dibattiti, spesso in chiacchiere vane, tra posizioni contrastanti o addirittura avverse, e scrivendo saggi, volumi, tomi addirittura, senza mai riuscire del tutto a dare una risposta esaustiva e soprattutto concreta. Quali le ragioni?

Innanzitutto, occorre chiarire che educare non è insegnare. Si può insegnare anche senza educare, ma è impossibile educare senza insegnare. Per educare a qualcosa, occorre sapere, amare ciò che si insegna e saperlo anche porgere con strategie che potremmo definire educative (meglio, didattiche), e che purtroppo sfuggono a qualsiasi situazione teorica ed a qualsiasi programma di comportamento.

Oggi (da sempre tuttavia), generalmente, gli insegnanti purtroppo non sono né educati né informati sull’arte. La scuola non lo fa o, se lo fa, lo fa male. Insegna soltanto, nel migliore dei casi, ma spesso in modo tecnicamente pedantesco, libresco. Per cui i ragazzi, senza che alcuno glielo insegni, disegnano sui muri. Solo oggi? No assolutamente. Sempre. Solo che un tempo non c’erano le bombolette spry. C’erano però pezzi di gesso, le pietre, i sassi, Con quelli si facevano graffi sui muri; e, da piccolissimi, i bambini, appena hanno un oggetto che segni, scarabocchiano ovunque dove possono. E battono ritmicamente, gioiendo e ridendo, su qualsiasi oggetto, col cucchiaio, sui piatti, calciando con i piedi barattoli o altro che faccia rumore. È l’istinto creativo che, per non essere lasciato allo spontaneismo più anarchico, va guidato, corretto, alimentato.

A questo punto, il ciclo deve interrompersi, non c’è scampo. Per educare occorre sapere e saper insegnare. Per far questo, si è inventata una disciplina, che è la pedagogia. Credo sempre meno alla sua importanza. Oggi sono addirittura convinto che sia un’antimateria, che si cerca di far esistere senza che essa esista davvero. La si è trasformata addirittura in scienza, la quale però, per essere tale, deve utilizzare discipline, queste sì scientifiche, come la psicologia, la sociologia, la medicina (molte situazioni comportamentali sono date anche da disfunzioni fisiche), l’auxiologia o scienza della crescita e dello sviluppo, la psicoanalisi, l’antropologia culturale, ecc. Un tempo queste discipline non esistevano, e la pedagogia era un filone della filosofia: studiando l’uomo, se ne analizzavano i vari aspetti. Da quello spirituale a quello razionale a quello infine dell’educazione. Ci si chiedeva: come dev’essere l’uomo in un determinato momento, per quella determinata società? A seconda dell’idea prevalente, così doveva essere, e così lo si educava. Oggi non esiste più alcuna di queste convinzioni: e la filosofia è perduta tra pensiero forte e pensiero debole, senza che si definisca né l’uno né l’altro in relazione all’uomo. Per quale idea dell’uomo dunque educare? Non si sa. È presente infatti quella che Maritain definiva, già negli anni ’40, obsolescenza dei fini. E gli studenti che vengono avviati agli studi pedagogici studiano la scienza del nulla; o meglio, studiano psicologia, sociologia, antropologia culturale, ecc. ma su come intervenire in relazione al sapere, su come proporre una materia, nulla, o piuttosto chiacchiere, espedienti. Per l’arte poi, peggio ancora, perché oltre a non sapere come insegnarla, non la si conosce neppure, né si sa in che modo, concretamente, far leva su quelli che il giovane Marx, in un suo saggio piuttosto raro, definiva “sensi capaci”. E allora? Allora il cane si morde la coda: per educare ad una realtà occorre saperla e saperla proporre; ma chi lo fa per professione non conosce (o conosce male e in modo libresco) la materia, né sa come né perché né in qual modo educare a quella materia, mentre occorrerebbe almeno conoscere una strategia metodologica, cioè uno, o anche più metodi; e infine avere esperienze di didattica, cioè degli strumenti operativi da usare; e poi di sapere come porgerli agli allievi; che non è pedagogia astratta (e, come a me sembra, vana), ma esperienza, operatività diretta, attenzione ai comportamenti, alle curiosità, ai bisogni di sapere e di scoprire (dunque urgenze psicologiche soprattutto, da conoscere) proprie dei bambini e comunque dell’uomo. Ma nel generico vuoto ufficiale, ci sono le eccezioni, molte eccezioni: tanti insegnanti che, a loro spese, con il loro impegno e sacrificio, anche economico, pagati malissimo e oltretutto considerati dei nullafacenti e dei perdenti dalla società, si impegnano, faticano, sostenuti da nessuno, anzi spesso ostacolati da burocrati ignoranti e supponenti o da politici profondamente incolti, per far amare quella materia che fino ad ora è addirittura ufficialmente assente in molti ordini di scuola, ed a cui, anche là dove è presente, si attribuisce un interesse pressoché nullo, in compagnia di quell’altra materia che è trattata anche peggio, e cioè la musica. Chi ha la fortuna di avere o avere avuto uno di questi insegnanti, ecco, sì, può forse cominciare ad apprezzare l’arte, a capirla, a sentirla viva dentro, come un messaggio di vita diversa, di originalità emotiva che è al contempo razionale e spirituale, cioè interiore, e di comprensione anche della storia, della società, del costume: in una parola, dell’uomo e del suo tempo.

Dunque, in conclusione: si può educare all’arte? Stando così le cose, no. Se cambiano, forse tra un secolo sì. Ma attualmente, solo se la fortuna aiuta.

Peccato che, nonostante queste cose si dicano da decenni o forse da secoli, ancora per il momento si debba far conto sul caso e sulla fortuna.


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