Creare e governare una città che non
figuri sulle carte, che sfugga agli orrori
dell'Epoca, che nasca così dalla volontà
dell'uomo, in questo mondo della Genesi.
(A. Carpentier, Passi perduti)
Seguendo le indicazioni di Greimas,1 la città può essere considerata il luogo di produzione di un sistema oppositivo di categorie semiotiche, una d’impronta sociale e l’altra d’impronta psicologica: società/individuo e euforia/disforia.
Nella prima l'individuo instaura il suo rapporto dialettico con l'alterità, con la molteplicità organizzata, con il collettivo. Nella seconda invece il soggetto definisce la sua posizione nei confronti dell'oggetto, architettonico e spaziale, della città, dinamizzandola all'interno di una opposizione patemica permanente.
Stabilendo una dialettica interna nella sua prospettiva lirica, il poeta trasforma la città in uno spazio topico che proietta la visibilità della sua dimensione umana esterna nel luogo interno psichico, in un continuo gioco tra reale e immaginario. La struttura urbana rinvia, di conseguenza, al punto di vista, alla prospettiva dello sguardo che scompone e ricompone questo spazio in funzione dell’esperienza di vita e di scrittura.
Ma, nello stesso tempo, la città è il luogo di produzione dell'attività utopica che trova stimoli sullo scenario ripetitivo della visività quotidiana.
Louis Marin, in Utopiques: jeux d’éspaces2 ha precisato il rapporto che si instaura tra posizione utopica e scrittura letteraria, in altre parole, tra “concezione di un mondo altro” e “configurazione stilistica” dello stesso, quando ha definito la funzione dell’utopia come quella di una pratica discorsiva insieme poetica e proiettiva in cui si riempiono i vuoti che i concetti della teoria sociale riempiranno successivamente.
Di queste due diverse e connesse modalità di relazione tra il soggetto dell’enunciazione (l’io poetante) e l’oggetto enunciato (la città) Luzi ha profonda consapevolezza. Lo dimostrano alcuni suoi scritti in prosa, che risultano complementari ai testi poetici, esplicativi della sua attitudine gnoseologica nei confronti dello spazio urbano.
In La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, egli scrive:
L’idea e l’immagine della città per me non è mai stata tanto quella puramente paesistica, quanto il suo insieme e la sua comunità. È stata sempre civitas più che urbs. E può benissimo dirsi immagine agostiniana. La città è un corpo, percorso da diverse pulsioni dell’agire umano e storico, ma è anche realtà illuminata dalla natura.
[…]
La raffigurazione, naturalmente, è reale e simbolica nello stesso tempo e vuole denunciare che la città umana senza idea vitale si sfascia.3
In filigrana possiamo, in questo lacerto riflessivo e confidenziale, rintracciare le linee fondanti della luziana concezione del mondo. Rivelatore è il rinvio ad Agostino ed alla sua configurazione duale della Gerusalemme terrestre e della Gerusalemme celeste nel De civitate Dei. Ma la suggestione agostiniana agisce anche sul piano della scrittura, spingendo il poeta a recuperare, nel verso “la città dagli ardenti desideri”, apposizione attribuita a Firenze nella poesia Siamo qui per questo, una locuzione tratta dalle Confessioni, Libro XI, cap. XXII: “Preso da un ardente desiderio di risolvere questo enigma - Exarsit animus meus nosse istuc implicatissimum aenigma”; anche Firenze è dunque un enigma sul quale Luzi riversa tutta la sua tensione ermeneutica.
I riferimenti al Nuovo Testamento, in particolare alle lettere di Paolo e all’Apocalisse, sono come attualizzati nel confronto con il pensiero antropologico e con la cultura letteraria della modernità.
Luzi ha presente il contributo metodologico di Mircea Eliade quando in alcuni suoi componimenti propone un’idea di città come archetipo, creazione di uno spazio ideale e reale in cui umano e divino possano comunicare.
Peraltro la connessione tra reale e simbolico come processo della rappresentazione poetica era già stata da lui evidenziata nell’introduzione a L’idea simbolista, sostenendo che
il linguaggio della poesia viene considerato come lo strumento proprio di codesta rivelazione dell’unità del mondo che esiste nello spirito e che lo spirito ritrova nelle apparenze sensibili ed episodiche come in simboli.4
La dimensione contrastiva euforia/disforia, suggerita dalla semiotica topologica della città, è confermata da Luzi nelle pagine illuminanti di Paragrafi fiorentini, in Prose:
Qualche volta mi è stato chiesto che cosa significa per me Firenze.
[…]
Quello che Firenze trasmette ai suoi è paragonabile a una struttura fondamentale, a una grammatica della mente e del senso: ed è anche qualche cosa di più sottile, al punto che l’impronta segreta è anche più tenace di quella visibile.
In casi come il mio, è una circostanza critica, un trauma inatteso o anche solo un’improvvisa intermittenza del cuore a rivelare il grado di attaccamento o a dare la coscienza del nostro amore che la venerazione intellettuale aveva più dissimulato che espresso.5
Un’altra città, invece, Siena, suggerisce al poeta un rapporto d’identificazione, collocato nella categoria del tempo e dello spazio, tra emblemi del femminile e archetipo della città in prospettiva utopica:
È un luogo madre Siena, è la città della Vergine, c’è questa associazione femminile a Siena come luogo materno.
[…]
La componente femminile dell’universo è stata primamente significata e verificata a Siena. La femminilità fa parte anche in senso metaforico delle grandi speranze, delle utopie, le grandi aspirazioni sono state viste in forma femminile. Mentre nel virile è più immediato, è più vicino alla storicizzazione del pensiero, dell’esigenza umana, nel femminile rimane anche questa custodia intemporale.6
In effetti, se tralasciamo alcuni scorci visivi utilizzati come attanti del pensiero poetante, ad esempio negli incipit di Serenata di Piazza D’Azeglio, Le fanciulle di S. Niccolò, e di Giovinetta, giovinetta, Firenze, nell’opera di Luzi, si configura come agnizione spaziale e insieme personificata, di una disforia che potremmo definire, usando una parola chiave della sua poetica, ‘agonica’, intesa come compresenza e interna lotta tra morte e vita, tra consunzione e rinascita, tra la fine e il fine, nel corpo oscuro della metamorfosi.
In Memoria di Firenze (1942), testo inserito nel volumetto Un brindisi, c’è l’immagine di una città che soffre umanamente la violenza della guerra e l’occupazione nazista, ma che nella sua storia e nella sua bellezza ritrova le ragioni del suo esistere, e resistere:
E quando resistevano
sulla conca di bruma
le tue eccelse pareti sofferenti
nella luce del fiume
tra i monti di Consuma,
più distinto era il soffio della vita
intanto che fuggiva;
e là dove sovente s’ascoltava
dai battenti socchiusi delle porte
origlianti la luna
la tua voce recedere in assorte
stanze ma non morire,
non un pianto, una musica concorde
coi secoli affluiva. Senza un grido,
né un sorriso per me lungo le sorde
tue strade che conducono all’Eliso…7
La città che diafanicamente emerge dalla conca di bruma in un silenzio di morte diventa un punto di riferimento, un luogo della speranza con le sue vie che portano al mondo degli eletti.
A distanza di ventiquattr’anni non sarà la follia degli uomini ma la furia delle acque, con l’alluvione del 1966, ad offendere l’armonia architettonica ed urbanistica di Firenze e recare danni irreparabili al suo patrimonio artistico e culturale.
Nel frattempo, la poesia di Luzi è mutata, ha acquisito una più conclamata tonalità civile, si è calata nel magma evenemenziale, nelle agostiniane vicissitudines temporum, ha assunto dimensioni poematiche entro le quali si svolge il processo, inteso sia come dantesco confronto della propria identità con l’alterità sia come incedere inesorabile della storia di cui la poesia è comunque sempre testimone, pur nei suoi caratteri prevalentemente simbolici e metaforici.
Eppure, ancora una volta, la città è lo spazio in cui si combattono la disperazione e la speranza, la morte e la resurrezione, tramite la procedura dialettica del contradditorio interno ad una soggettività dimidiata, in un confronto serrato tra ego e alter ego, appena attenuato dal ritmo invocativo:
«Prega», dice, «per la città sommersa»
venendomi incontro dal passato
o dal futuro un’anima nascosta
dietro un lume di pila che mi cerca
nel liquame della strada deserta.
«Taci» imploro, dubbioso sia la mia
di ritorno al suo corpo perduto nel fango.
«Tu che hai visto fino al tramonto
la morte di una città, i suoi ultimi
furiosi annaspamenti d’annegata,
ascoltane il silenzio ora. E risvegliati»
continua quell’anima randagia
che non sono ben certo sia un’altra dalla mia
alla cerca di me nella palude sinistra.
«Risvegliati, non è questo silenzio
Il silenzio mentale di una profonda metafora
come tu pensi la storia. Ma bruta
cessazione del suono. Morte. Morte e basta».
«Non c’è morte che non sia anche nascita.
Soltanto per questo pregherò»
le dico sciaguattando ferito nella melma
mentre il suo lume lampeggia e si eclissa in un vicolo.
E la continuità manda un riflesso
Duro, ambiguo, visibile alla talpa e alla lince.8
La struttura discorsiva è anche qui, nella seconda parte del poemetto Nel corpo oscuro della metamorfosi, quella del sistema oppositivo voce/silenzio, buio/luce, morte/vita, già presente in Memoria di Firenze, ma Luzi vi aggiunge una clausola gnomica che dilata il dubbio epistemologico sulla diacronia della storia il cui riflesso anfibolico è ugualmente percepito da chi vive in cecità (la talpa) e chi presume di saper interpretare gli eventi (la lince).
Il 27 maggio 1993 un attentato probabilmente di stampo mafioso distrugge l’Accademia dei Georgofili ed uccide la famiglia del custode. Firenze è di nuovo colpita dalla violenza, ma ancora una volta, come per Memoria di Firenze, non è un evento naturale a distruggere il patrimonio di bellezza che la città racchiude in sé come in uno scrigno, ma la malvagità degli uomini, una violazione all’ethos sociale condiviso.
Nella poesia Sia detto, pubblicata per la prima volta in La Nazione, 8 giugno 1993, Luzi recupera le sue riflessioni teoriche sulla capacità ermeneutica della parola poetica, caratterizzate, a partire da Al fuoco della controversia, dal fitto reticolato di domande che intessono le poesie, e la finalizza nel suo ruolo di testimonianza della vivente contraddittorietà del reale, salvando i frammenti della storia dal nulla e trasformandoli in elementi fondanti di un canto salutare:
Sia detta per te, Firenze,
questa nuda implorazione.
Si levi sui tuoi morti,
sulle tue molte macerie,
sui tuoi molti
visibili e invisibili tesori
lesi nella materia,
offesi nell’essenza,
sulle tue umili miserie
ferma, questa preghiera.
[…]
Sia detta a te, Firenze,
questa amara devozione:
città colpita al cuore,
straziata, non uccisa;
unanime nell’ira,
siilo nella preghiera.9
Il nodo oppositivo morte/vita, buio/luce, materia/essenza, incardinato nella ternaria struttura orante del testo: implorazione – preghiera – devozione, si scioglie e si condensa nella invocazione finale: “Pace, pace, pace”.
La tonalità del discorso è data dall’intreccio tra l’invettiva che nasce dallo sdegno e dalla ribellione al predominio del male sul bene, e dalla richiesta di giustizia umana, e la proiezione metafisica e teleologica insita nella preghiera.
I nuclei isotopici presenti nel testo rinviano ad immagini dell’Antico Testamento, dell’Apocalisse, del Credo cattolico (“visibilium omnium et invisibilium”) e concorrono tutti, nel permanere delle antinomie patemiche, a definire la funzione sacrale, “sacrificale” è il lemma usato da Luzi = rendere sacro, della civitas fiorentina:
Sii, tra grazia e sofferenza,
grande ancora una volta,
sii splendida, dura
eppure sacrificale.
Ti soccorra la tua pietà antica,
ti sorregga una fierezza nuova.
Sii prudente, sii audace.
Pace, pace, pace.10
Ma proprio nella poesia successiva, significativamente, l’amara constatazione della crisi sociale e morale che affligge anche Firenze (“la rode / nella sua dura carità il presente / di infamia, di sangue, di indifferenza”) cede il passo ad una volontà di ricostruire il tessuto comunicazionale e relazionale della città, nel ricordo della tensione utopica sprigionata dagli atti e dalle parole del sindaco Giorgio La Pira.
In Siamo qui per questo Luzi rievoca e nello stesso tempo invita a mantenere vivo l’insegnamento dell’uomo politico:
Ricordate? Levò alto i pensieri,
stellò forte la notte,
di pace e d’amicizia
la città dagli ardenti desideri
che fu Firenze allora…
Essere stata
nel sogno di La Pira
«la città posta sul monte»11
la cui progettualità utopica trovava fondamento nell’attesa, paolina e agostiniana, dell’unione delle due Gerusalemme che ritroviamo in un passo del discorso tenuto a Firenze il 2 ottobre 1955 dal titolo Per la salvezza delle città di tutto il mondo. Parlando delle “città millenarie che, come gemme preziose, ornano di splendore e bellezza le terre dell’Europa e dell’Asia”, La Pira afferma che “per ciascuna di esse è valida la definizione luminosa di Péguy: essere la città dell’uomo abbozzo e prefigurazione della città di Dio”.12
Nelle testualità poetica luziana la città di Firenze non si configura sempre come locus dramatis.
In alcuni componimenti la disforia si limita ad uno scompenso psicologico e cronologico, ad una epoché che, come scrive Husserl, “ponendo tra parentesi” la soggettività e il dato empirico, garantisce il processo gnoseologico.
In Ha un bel dire con tutti i suoi platani Firenze Luzi avverte il disagio dell’homo historicus, sottoposto all’inesorabile legge del mutamento, rispetto alle suggestioni idilliche di una natura e di un paesaggio percepiti come immutabili, e denuncia l’impossibilità di un’identificazione analogica tra esperienza esistenziale e spazio urbano, che dia valore cognitivo al processo visivo:
Né so cosa m’intenerisce di lei,
se davvero la spina che le è infissa della mia vita
o quell’aria di congedo in lei da me, in me da lei. O il
niente di questo.13
A distanza di anni, la divergenza tra psicologia del soggetto e oggetto della proiezione ottativa, si concentra ancora una volta su una percezione di distonia. La constatazione che “Non è uguale la musica, non può esserlo” che era il punto di abbrivo di Ha un bel dire, ritorna in un componimento Non fu pari all’attesa inserito nel volume Frasi e incisi pubblicato nel 1990:
Parole non mancavano, mancava
se mai la loro musica. E Firenze
non ne aveva
di sua, non ne emanava
dalle segrete camere, neppure
ne perdeva da occulte fenditure
o da malchiuse porte come un tempo.14
con il calco montaliano “malchiuse porte” da Corno inglese a sottolineare la forza euforica, qui sonora e non visiva, ormai perduta, del locus amoenus.
In questa “epifania di mancato contatto con la città”,15 come l’ha definita Stefano Verdino, l’armonia del rapporto tra soggetto e spazio si è trasformata in vocìo senza senso. La polis, antropomorfizzata nel suo corpo collettivo vivente, non è più capace di comunicare emozioni all’io poetante e soffre della distanza determinata dalla diacronia della storia umana:
Ci appariva
insolita Firenze. Stava muta,
impiccata allo strapiombo
delle sue nere muraglie,
rigata dalle lacrime
di luce delle sue alte lampade.
Era insolita nel volto
o noi troppo mutati suoi nottambuli
attraversati da lei, passati oltre.
Lo stesso Luzi ha chiosato:
È una Firenze non ritrovata, attraverso i miei compagni; vedo la città staccata, non è più quella dei nostri tempi. L’immagine della città è impervia, perché non contiene più le nostre illusioni.16
Il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini si svolge in una dinamica di vicinanza/lontananza, attrazione/rifiuto, che ha come riferimenti visivi le città di Siena e di Firenze.
Quest’ultima è configurata in linee prospettiche differenziate.
Un tramonto, come avviene in Nel ricordo o nel presente?, può suggerire una sorta di ierofania cristica di Firenze:
Entra, sera di sole,
sera estrema di solstizio
nel costato di Firenze,
ne infila obliquamente
i tagli, le fenditure,
ne infiamma le ferite,
le croste, le cicatrici,
ne infervora le croci,
le insanguina copiosamente.17
Oppure è la riflessione sul ruolo di Firenze come culla delle nuove tendenze artistiche ad instaurare in Simone un’attitudine ambivalente di attrazione e paura, che si condensa nel tema archetipico del labirinto:
Si approssima Firenze.
Si aggrega la città
S’addensano i suoi prima
Rari sparpagliati borghi.
S’infittiscono
Gli orti e i monasteri.
Lo attrae nel suo gomitolo,
ma è incerto
se sfidarne il labirinto
o tenersi alla proda, non varcare il ponte.
[…]
È là, lei, la Gran Villa
che brulica e formicola.18
Alla fine predomina l’inquietudine, quello stato disforico rivelato dall’interiezione con cui si chiude la poesia e che proietta il desiderio di Simone verso la meta finale del suo viaggio, la città natale, Siena:
Ah Firenze, Firenze. Sonnecchiano
intontiti i viaggiatori nella sosta.
Meglio rimettersi in cammino,
prendere la via di Siena, immantinente.19
La simbolizzazione della città come organismo vivente, come icona del grembo femminile che rinnova attraverso la nascita il trionfo della vita sulla morte, come grumo di continuità e mutamento, si concretizza attraverso l’adozione di simboli, come la pietra, il fiume, la pioggia, complementari e funzionali alla densità semiotica del topos urbano.
Su questo tema ha scritto parole illuminanti Padre Bernardo Francesco Gianni, dell’Abbazia di San Miniato al Monte, in un suo saggio reperito nel sito internet di Farapoesia:
Luzi non manca semmai di utilizzare, con la forza e la logica tutte precipue del simbolo, quanto dell’urbs possa esprimere la vitale consistenza e al contempo l’incessante tornitura della storia con la conseguente stratificazione e, anche, cancellazione della memoria proprie della civitas. […]
La città, nella sua organica condensazione di vita vissuta, pare insomma inesorabilmente esposta all’inesausta tensione tra memoria e oblio, tra sedimentazione ed erosione, tra puntuale ciclicità e ineluttabile, repentina e inaspettata metamorfosi.20
Lo stesso Luzi, in Paragrafi fiorentini, indica nella pietra, nell’acqua e nella luce le metafore ossessive delle sue “riappropriazioni di Firenze”.21
Il fiume Arno, allora, diventa segno dell’inesorabile scorrere del tempo e in esso il poeta cerca “la forza che ti fa sempre discendere”22 ma, nello stesso tempo, come in Inferma così, è portatore di vita, della continua metamorfosi che intacca l’immobilità dei bastioni, delle mura, delle torri di Firenze:
Ed ecco, le manca
in mezzo alle sue pietre
quel flusso d’acqua e luce,
d’acqua e notte
[…]
E soffre
lei, città,
soffre innaturalmente.
Ma intanto già si scioglie
dalla sua rigidità
[…]
La vita nasce alla vita,
è quello l’avvenimento, quella
la sua sola verità.23
E in questa agnizione veritativa dell’evento-avvento c’è forse la lettura dei testi di Paul Ricoeur.
Oppure è la pioggia, archetipo secondario che Jung connette all’acqua purificatrice e generatrice, a donare vitalità alla città:
Piove fitto, pluvia
antica primavera
sulle antiche mura,
dilava la città,
di noia
e di tempo la defluvia,
le porta vita.24
Ma trovo la sintesi del complesso rapporto tra Luzi e Firenze nella composizione presente in Sotto specie umana (1999), Città tutta battuta.
Qui il poeta assume la città come luogo del molteplice e del mutamento e attraverso un climax d’immagini che transitano dal negativo al positivo la trasforma in una Gerusalemme celeste, in un passaggio dalla fisica alla metafisica, realizzato attraverso l’interiorizzazione memoriale del toponimo:
Città tutta battuta
camminata scarpinata
frugata nei suoi vicoli
discesa e risalita
sulla schiena
marcata dei suoi ponti,
sorpresa nei suoi inferi,
sorvolata in sogno
città datami in sorte
o in uso
o io a lei
per il suo impossibile compimento –
eccolo, non ha remore,
è senza misericordia
in lei il gran crogiolo
delle trasformazioni
in cenere, in letame,
eppure un’alchimia
celesta la diglabra,
la polisce di me e d’ogni ombra,
la squadra in geometrie;
e in luce,
in puro nome le divampa. Oh flos.25
1 Cfr. A.J. GREIMAS, Pour une sémiotique topologique, in Sémiotiques et sciences sociales, Seuil, Paris 1976, p. 138.
2 L. MARIN, Utopiques: jeux d’éspaces, PUF, Paris 1960.
3 M. LUZI, La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, a cura di S. Verdino, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 108.
4 M. LUZI, L'idea simbolista, Garzanti, Milano 1959, p. 7.
5 M. LUZI, Prose, Aragno, Torino 2014, p. 107.
6 M.LUZI, Cantami qualcosa pari alla vita, Nuova Compagnia Editrice, Forlì 1996, pp. 18-19.
7 M. LUZI, L'opera poetica, Mondadori, Milano 1998, p. 112.
8 M. LUZI, Ivi, p. 379.
9 M. LUZI, Ivi, p. 1.231.
10 M. LUZI, Ivi, p. 1.232.
11 M. LUZI, Ivi, p. 1.233.
12 Vedi la pagina web “Per la salvezza delle città di tutto il mondo” sul sito dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
13 M. LUZI, L'opera poetica, cit., p. 486.
14 M. LUZI, Ivi, p. 830.
15 M. LUZI, Ivi, p. 1.711.
16 M. LUZI, Ivi, p. 1.283.
17 M. LUZI, Ivi, p. 1.059.
18 M. LUZI, Ivi, p. 1.055.
19 M. LUZI, Ivi, p. 1.056.
20 B. M. GIANNI, «La città dagli ardenti desideri». Mario Luzi custode e cantore della civitas, in Farapoesia, 3 aprile 2007.
21 M. LUZI, Prose, cit., pp. 107-112.
22 M. LUZI, All'Arno, in L'opera poetica, cit., p. 22.
23 M. LUZI, L'opera poetica, cit., p. 864.
24 M. LUZI, Ivi, p. 1.151.
25 M. LUZI, Sotto specie umana, Garzanti, Milano 1999, p. 31.