Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Eugenio Montale
Fin dall’incipit, negli squarci sognanti abbacinati di neve, montagne e speranze, Matteo Bianchi affascina per il sentimento metafisico della realtà. Essa che prepotente si veste spesso di crudezza e delusione, è stemperata dalla scrittura, spazio vitale al poeta per una dimensione terza delle cose, catartica e salvifica nel recupero della memoria soprattutto del dolore “solidale” alle cose e agli uomini e alle “rose”, ingranaggio necessario alla giostra infinita del mondo dove anche il sogno è per Matteo Bianchi complicità con il quotidiano, la primavera in stanza come egli stesso scrive. E se non tutto è spendibile in versi, il tempo della poesia «ieri ho letto poesia/ fino a tarda notte» è però tempo di passione, riferimento continuo di avvicinamento ad una atemporalità terrena, una centralità del cosmo che rimanda al punto di “sprofondato equilibrio” dell’Aleph borgesiano connotato nel poeta con un incisivo theòs in corsivo. Non per questo Matteo Bianchi tende ad una verticalità ma piuttosto direi che, da un sentimento di possibile ascesi calamiti maggiormente il suo vissuto ad una sacrale terrestrità. “Vi porterei tutte con me” titola una sezione della silloge che abbraccia l’altro, l’oltre, l’ordine del caos «l’estrema coerenza del caos/ sia fuori, sia dentro di me», la bellezza e la condivisione «la poesia mi tiene in sé/ e resto intero».
Intero e capace di elaborare dolorose assenze in versi che respirano e ripercorrono con struggenza la vita di chi c’insegnava che «si potano i rosai/ per impedire che, marcendo,/ i rami secchi mandino in cancrena/ l’interno indifeso e le rose/ non sboccino più». Ogni anno sbocciano forse troppe rose per quel giorno d’allora, per quel tempo di malattia, per quegli occhi che cambiavano colore e... «sono rimasto per le tue parole/ per spargerle nel grande fiume/ …per chi mi aveva dato/ un amore terreno/ avevo un pianto disarmato/ in cambio, che l’avrebbe seguito». Rimandare al cuore risuona d’emozione, è sovrapposizione di immagini, di ricordo e salva l’interno indifeso delle rose proprio nella congiunzione fra morte e vita, tra buio e luce. Il verso libero potenzia l’emozione, l’andamento libero delle parole, il bagliore di luci; arriva l’odore dei fiori gigli genuini colti dal vaso, il rumore dei treni, arrivi, partenze, occasioni sono improvvisi sipari che si aprono sulla tela della vita.
Il ragno magari ignora
l’inquieta bellezza che ha creato
sul filo è necessaria la postura
ma tu non dimenarti
ascolta il tuo respiro
dosalo
non soffiare sulla tua sofferenza
abbine cura
la tela una volta tessuta e tesa
già non è più tua.
Finiscono qui le passioni, il nostro io diviso, il languore viscontiano di Venezia, l’incapacità di dire “per sempre” e si ricompongono ne “la metà del letto” dove a sera, «risorgevo quotidiano /onorando il mio dolore/ e portando il vostro con me».
La silloge è dedicata ai suoi genitori e da quando ho iniziato a scrivere queste poche righe sul poeta Matteo Bianchi mi torna l’eco di un meraviglioso brano di De Andrè: “come farò a dire a mia madre che ho paura?” Ed infine noto che l’ultima poesia è seguita da dodici pagine bianche. Forse un invito per noi lettori a rispondergli?
Patrizia Garofalo
Matteo Bianchi, La metà del letto
Barbera Editore, Siena 2015, pp. 128, € 15,50