Uno dei film più belli sui problemi di integrazione degli immigrati nei paesi europei, è il film realizzato nel 1974 da un grande autore tedesco, Rainer Werner Fassbinder, La paura mangia l'anima, ripubblicato in dvd dalla Ripley's Home Video, nella versione restaurata l'altr'anno dalla Fassbinder Foundation.
Il titolo, apprendiamo nel corso del film, è ricavato da un proverbio del Marocco e, nel contesto del racconto, sembra significare in primo luogo che chi, per paura del giudizio degli altri, rinuncia alla propria libertà, si disanima, muore interiormente (un'altra espressione tradizionale citata nel film è: “Ha la morte negli occhi”; qui usata per indicare una persona intimamente spenta).
Non hanno paura i due protagonisti del film: una signora tedesca, sui sessantacinque anni, che lavora come donna delle pulizie; e un immigrato in Germania dal Marocco di due o tre decenni più giovane di lei.
Capita che in un giorno di pioggia la donna si rifugia in un bar per immigrati. Le si presenta Alì, il marocchino; e lei accetta di ballare con lui al suono di un juke-box. I due fraternizzano, perché entrambi si sentono soli nella fredda Germania. Poi la donna, avendo appreso che l'uomo abita in una stanza con altre sei persone, lo invita a dormire a casa propria (lei è vedova, e i suoi figli vivono ormai per conto loro).
E i due, senza neanche averlo deciso, travolti dalla circostanza, finiscono a letto insieme. E non si tratta di un'avventura occasionale: tra loro matura un affetto profondo. Tanto è vero che la donna – malgrado l'ostilità dei vicini, delle colleghe e dei figli – decide di sposare Alì in municipio. Ora, se questa coppia fosse soltanto impavida, del tutto impermeabile ai pregiudizi, avrebbe qualcosa di irreale, di monumentale.
E invece, la donna, che non aveva mai avuto occasione di sperimentare il razzismo su di sé, non capacitandosi di tanta aprioristica contrarietà, tenta come può di convincere i suoi prossimi che Alì non è quella bestia che loro credono, che è un brav'uomo, all'occasione perfino servizievole, che non intende sfruttarla, che loro due si vogliono bene per davvero. E quando non riesce a far breccia sui cuori dei suoi accusatori e persecutori, non è capace di ritirarsi in un isolamento idilliaco con la persona che ama.
Tutto il racconto vuole anzi dimostrare che l'ostracismo sociale, quasi irresistibilmente, impedisce la felicità alle sue vittime, anche se dotate di coraggio e di forza interiore.
Nel nostro caso, l'ostilità del mondo finisce per deteriore l'armonia tra i due innamorati. La donna è ossessionata dal ghigno ripugnante di chi la osserva per strada. Alì finisce per tradirla; pur disprezzandosi per questo, una volta la respinge pubblicamente. Il suo malessere si somatizza in un'ulcera allo stomaco.
Fassbinder concepiva i suoi film come atti d'accusa, deliberatamente esasperati, alla Germania del suo tempo, per la quale, a suo parere, il nazismo non era un'esperienza davvero conclusa. Così la dipinge come un consesso di anime morte. Perché è questo forse l'insegnamento più prezioso che trasmette il suo film: che il razzismo, che si esprima in atti o nelle chiacchiere stolte di tutti i giorni, può ferire gravemente chi ne è il bersaglio, ma in primo luogo spegne l'anima dei persecutori.
Una nota a margine. La protagonista è interpretata da un'attrice qui bravissima: Brigitte Mira. Mentre l'attore che interpreta l'immigrato, El Hedi Ben Salem, morirà suicida in carcere pochi anni dopo. E a lui Fassbider dedicò il suo ultimo film, Querelle, girato poco prima di morire, nell’82, in odore di suicidio lui stesso, a meno di quarant'anni.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 19 giugno 2015)