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Storia e storie della diaspora nei romanzi di Stefano Zecchi 
di Alfredo Luzi
10 Giugno 2015
 

La parola che adesso si sentiva più di frequente era ‘esodo’. Capivo che l’esodo era la nostra salvezza, ma era anche la nostra paura e la nostra sconfitta: era l’addio a tutto quello che ci era appartenuto. Non avremmo più avuto le nostre case, le scuole, il nostro mare, i giardini di Pola. Soltanto la mamma non voleva sentir pronunciare quella parola, e soltanto il nonno riusciva a fargliela ascoltare.1

Così l’esperienza lacerante dell’esilio entra, con la sua ambivalenza percettiva tra speranza e perdita, nella esistenza del protagonista del romanzo di Stefano Zecchi Quando ci batteva forte il cuore.

Un vicenda, quella dell’esodo, che Petacco ha definito in un suo libro, come recita il sottotitolo di un suo libro, La tragedia negata degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia,2 molto complessa nelle sue implicazioni belliche e politiche, per la quale ancora oggi gli storici non hanno individuato una interpretazione condivisa, col rischio di proporre delle analisi settoriali e talvolta settarie.

È altrettanto vero, tuttavia, che sul piano antropologico, i cosiddetti ‘territori di confine’ sono spesso sottoposti a condizioni di fragilità politica e sociale derivanti dalla loro collocazione geografica.

In questa prospettiva il cinismo degli aforismi di Ambrose Bierce che definisce «confine» «quella linea immaginaria che separa i diritti immaginari di una parte dai diritti immaginari dell’altra»3 e che denuncia la violenza del potere militare sui popoli scrivendo in un suo aforisma che Dio usa le guerre per insegnare la geografia alla gente si intreccia con le considerazioni metodologiche di Ernst-Wolfgang Böckenförde sui processi di stratificazione di identità di un popolo basata sulla storia, la cultura, la lingua, la religione, che nelle terre di frontiera si fa plurima e condizionata, relazionale, perché in continuo rapporto dialettico con altre identità.4

Zecchi racconta la storia di Sergio, un bambino di sei anni, costretto a abbandonare Pola, martoriata dai bombardamenti degli alleati, dalle violenze dei titini, dalle vendette personali, e a fuggire insieme al padre Flavio a Trieste e a Venezia, mentre la madre Nives continua a svolgere attività cospirativa e si batte in difesa dell’identità italiana di quelle terre che il trattato di Parigi assegnerà alla Jugoslavia.

La tutela dell’italianità passa anche attraverso il rifiuto del dialetto:

Non avevo mai sentito mio padre parlare in dialetto: la mamma non voleva, lei pretendeva che si usasse sempre e soltanto l’italiano sia in casa che fuori.5

E per contrasto la violenza politica è veicolata anche dalla imposizione della lingua dei vincitori:

Ogni giorno avevamo a che fare con parole nuove che neppure la mamma comprendeva: scritte sulle insegne delle botteghe, nomi cambiati delle strade; […] avremmo dovuto imparare il croato.6

La macrostoria, internazionale e nazionale, irrompe così nella microstoria familiare del protagonista, lacerando il sogno di una tranquilla quotidianità.

Io, mamma e papà, Umberto: era la mia famiglia, e mi sentivo al sicuro. Doveva essere questa la vita vera, io in mezzo a loro. Mi pareva la conquista pi bella, pi semplice, quella che il destino non avrebbe mai dovuto portarmi via.

Ma la politica dominava sulla nostra famiglia, e invece di preoccuparsi delle vicende della nostra città, si divertiva a abitare stabilmente a casa nostra per prendersi gioco di noi.7

Della rottura dell’unità familiare Sergio incolpa la madre che, tutta presa dal suo impegno politico, entra in conflitto con il marito, meno politicizzato e pi passivo nei confronti degli eventi che sconvolgono la vita di intere popolazioni:

Mi auguravo che almeno per qualche tempo la politica rimanesse fuori dalla porta di casa, come desiderava mio padre. E invece, proprio la sera stessa della manifestazione, si tenne a casa nostra una riunione a cui parteciparono poche persone, che non avevo mai visto prima.8

Il ricordo della famiglia attraverso i racconti del padre, una volta raggiunta l’Italia, diventerà per Sergio elemento utopico di attesa di un futuro di pace, una speranza simbolizzata dalla frase ricorrente con cui il genitore chiude i frequenti colloqui con il figlio: “poi vedremo”:

Era sempre l’immagine della mia famiglia, come si era formata, com’era unita, com’era felice, che mi dava la sicurezza e la tranquillità necessarie per guardare avanti.9

L’opzione tematica per una vicenda familiare e la scelta di un titolo che in qualche modo rinvia al pathos del romanzo pedagogico, da De Amicis alla Tamaro alla Comencini, in qualche modo omologa il romanzo all’interno di una tradizione narrativa molto apprezzata da una comunità di lettori prevalentemente composta dalla borghesia colta.

Zecchi, utilizzando una strategia di focalizzazione già presente in autori come Calvino, Moravia, Morante, Ortese, Prato, adotta il punto di vista del bambino sugli eventi tragici di quegli anni, quasi a garanzia di un atteggiamento non ideologico nel giudizio sul dramma sofferto dagli abitanti dell’Istria e della Dalmazia.

Questa strategia narrativa era peraltro già stata utilizzata anche in altre modalità di comunicazione collettiva come nel cinema neorealista. In presenza di una realtà la cui descrizione genera angoscia e smarrimento, anche per la complessità della storia narrata, il ricorso allo sguardo del bambino corrisponde al tentativo del recupero dell’innocenza di fronte ai sensi di colpa di una intera società.

In film come I bambini ci guardano, Ladri di biciclette, Roma, città aperta, Sciuscià, la visione proiettiva di un fanciullo è l’elemento unitario della narrazione, così come lo è in questo romanzo.

Il cumulo di esperienze tragiche a cui è sottoposto il protagonista determina meccanismi di angoscia e di dislocazione psicologica che aumentano la percezione della diversità e della precarietà:

Adesso provavo quella paura che non ha nome, senza volto, come un incubo che assale con i suoi mostri, cogliendoti nella solitudine, senza difese. Era davvero fragile la serenità che avevo appena conquistato. Un’illusione, e una certezza invece che il cammino per poter diventare un bambino normale era ancora lungo.10

Ma è proprio il contatto diretto con la sofferenza, la paura, la morte, che ha accomunato un intero popolo, a rovesciare il rapporto tra storia collettiva e storia individuale, facendo di questa un emblema della condizione storico-esistenziale in cui si sono trovati gli abitanti dell’Istria tra il 1943 e il 1952:

Cerco di convincermi che la mia è una storia come tante, come tutte quelle vissute dai bambini che vivevano in Istria negli anni della guerra e in quelli della pace, quando in Europa si festeggiava la libertà e a noi batteva forte il cuore per la speranza, per la paura, perché per noi la pace degli altri voleva ancora dire ingiustizia, dolore, morte.

Come tanti bambini del mio tempo e della mia terra ho conosciuto presto la crudeltà del mondo e la generosità di pochi.11

Sulla base dell’esperienza soggettiva l’io narrante recupera, a conclusione del suo viaggio di formazione, il valore eroico della scelta della madre, che ha sacrificato la sua vita ai propri ideali di libertà e italianità, anche se non riesce a perdonarla per aver privilegiato la lotta politica alla difesa della famiglia:

Mia madre è stata trucidata, l’hanno trovata in una foiba con i polsi stretti dal filo di ferro, legata insieme ad altri sette sventurati. Ho saputo della sua morte quando ero già grande, o forse l’ho sempre saputo, fin da quella mattina in cui svegliandomi non l’ho più vista accanto a me. Anche da questo dolore mi aveva protetto mio padre, lasciando che il tempo sbiadisse la sofferenza dell’abbandono.

Chissà dove l’hanno ammazzata, povera mamma, con tutte le sue illusioni!12

Nella prima pagina del romanzo la figura del padre, assente perché in guerra, è recuperata attraverso il ricordo di un gesto («Mio padre mi ha insegnato a fischiare»)13 che si ripete, nell’ultima domanda del figlio del protagonista divenuto a sua volta padre («Papà... mi insegni a fischiare?»),14 chiudendo in una circolarità narrativa il tempo di lettura.

La conoscenza diretta col genitore si realizza attraverso una sorta di agnizione, nel momento in cui il personaggio torna in famiglia dopo anni di lontananza:

Mi trovai davanti un uomo così sporco e miserabile da farmi paura. Aveva il cappotto stracciato sulla manica e coperto di fango, le scarpe erano rotte, perfino diverse tra loro, e poi puzzava in modo così disgustoso che pareva fosse entrata in casa una capra.

[…] ho conosciuto così mio padre.15

È una sorta di anticipazione archetipica della condizione di erranza che anche il figlio avrebbe conosciuto, divenendo anche lui profugo ed esule.

Se all’inizio il bambino percepisce il padre reduce come un estraneo, pian piano, soprattutto nella lunga sequenza del viaggio verso la libertà, egli scopre che anche il papà è capace di amore e tenerezza nei suoi confronti.

Il viaggio da Pola verso Trieste e poi a Venezia, durante il quale i protagonisti sono sottoposti alle più dure prove di sopravvivenza, rappresenta la macrostruttura tematica della narrazione e assume la valenza allegorica di un processo di formazione.

L’io narrante si sofferma a lungo sui rumori dell’esodo di massa con l’imbarco sul piroscafo Toscana, sulla «puzza disgustosa» che emana dalle baracche di via Campo Marzio, sulla tristezza che sembra essere un sentimento esclusivo della condizione di profughi, fino a dichiarare che la fuga verso la libertà è di fatto una fuga dall’infanzia e che nella scelta della partenza può nascondersi anche un senso di colpa:

In silenzio, come gente colpevole di un indicibile crimine, lasciavamo la nostra terra.16

Sull’asse cronotopico il romanzo presenta una forte impronta storica e realistica.

Gli indicatori temporali a partire dal 1943 fino al 1952 cadenzano sulla pagina le sequenze dedicate alle vicende belliche e politiche susseguitesi a Pola in quel periodo, mentre quelli spaziali, nomi di vie, edifici, paesi, costituiscono una vera e propria mappa della città di Pola, di Trieste e del territorio circostante.

L’effetto di documentazione storica è confermato dal fatto che il narratore descrive con precisione quasi cronachistica una serie di episodi accaduti in Istria, come l’imbarco dei profughi sulla motonave Toscana, la bomba contro il ristorante Bonavia, la strage di Vergarolla in cui morirà l’amico di Sergio, Umberto, l’esplosione sulla nave Campanella.

Così accanto alle figure immaginarie del bambino Sergio, della madre Nives, del padre Flavio, del nonno, degli amici di giochi e di scuola, il lettore si imbatte in personaggi reali, come Maria Pasquinelli, l’insegnante iscritta al partito fascista ma non aderente alla Repubblica Sociale Italiana, che il 10 febbraio 1947, giorno della firma del trattato di Parigi, uccide in un attentato il comandante della guarnigione britannica Robert William Michael De Winton come atto di ribellione alla decisione dei Quattro Grandi.

L’autore, che ha dedicato alla biografia di Maria Pasquinelli una sorta di documento romanzato Maria. Una storia italiana d’altri tempi (Roma, Vertigo, 2011; ma già in «I corti di carta», Corriere della Sera, settembre 2008), attraverso la pubblicazione dell’interrogatorio e della arringa del difensore, colloca questa figura tra le amiche pi intime della madre di Sergio, anche in nome della consonanza sul piano politico.

Sono citati anche Mario Mirabella Roberti, direttore del Museo dell’Istria, che alla fine del conflitto si dedicò alla ricostruzione dei monumenti storici di Pola gravemente danneggiati dai bombardamenti e Attilio Craglietto, preside del ‘Liceo Carducci’ e fondatore del Comitato Cittadino Polese per difendere l’italianità della città.

Con un sapiente dosaggio tra invenzione e storia Zecchi rende verisimiglianza ai personaggi del suo romanzo, attribuendo ad esempio a Nives un suo impegno nella pubblicazione del giornale L’Arena di Pola, nato come quotidiano sotto la spinta del Comitato di Liberazione Nazionale di Pola, che aveva contatti con gli esuli giuliani in Italia e con il Comitato di Liberazione Nazionale Italiano. Il giornale, contrario alla annessione di Pola alla Jugoslavia, aveva pubblicato il 4 luglio del 1946 in prima pagina un articolo dal titolo «O l’Italia o l’esilio», presagendo l’esito degli accordi di Parigi.

Ma la collocazione di questo testo narrativo nel canone del romanzo storico contemporaneo è soprattutto ribadita dalla presenza del tema delle foibe, un argomento, per molto tempo rimosso dalla storiografia ufficiale e dalla letteratura, diciamo così, omologata, per opportunità politica a livello nazionale e internazionale.

Come per l’esodo anche per le foibe la conoscenza del reale e la coscienza storica passano attraverso la scoperta di una parola che sconvolge l’immaginario soggettivo del bambino:

E ora c’era un’altra parola che incominciava ad assumere un significato diverso da quello che conoscevo: foiba.17

Non solo Sergio ha ascoltato il racconto della madre sulla foiba di Vines, su quelle di Albona, sulla scoperta dei cadaveri e sul rituale del cane nero lanciato vivo nella foiba per togliere la pace ai morti. Ma nelle foibe «adesso i partigiani comunisti ci avevano buttato il mio compagno Oscarino».18

In questo romanzo il lemma storia diventa anche uno stilema in cui si concentra l’urgenza della testimonianza. Per non rischiare l’oblio è necessario che qualcuno, come fa l’autore, ci racconti una storia, drammatica che sia, sublimata dal genere letterario, per educare una speranza di pace. Tutta la narrazione si sviluppa attraverso l’inserimento di altre storie, altri racconti, per cui il significato di storia e di racconto spesso coincide fino a divenire metafora ossessiva («Umberto incominciò a raccontarci»;19 «i suoi racconti, non quelli di Salgari, mi avrebbero rasserenato»;20 «il papà ricordava storie piene d’amore»;21 «ci raccontavamo dov’eravamo nati, illustravamo la nostra città, la nostra casa, spiegavamo come trascorrevamo il tempo e quali erano i nostri giochi preferiti»;22 «ascoltavo quelle storie»;23 «la mia una storia come tante»24).

La drammaticità del reale viene così stemperata nella psicologia del bambino da un costante procedimento di compensazione affidato a una realtà altra, interiore, quella del sogno e dell’immaginario, dei ricordi.

I giorni felici passati sulla spiaggia di Stoja, i giochi dei bambini nelle baracche dei profughi, la lettura di Salgari con i suoi eroi esotici e delle poesie di Leopardi, l’attesa di giorni più sereni, fanno resistenza alla drammaticità della biografia.

Soprattutto nelle pagine finali il riscatto dalla sofferenza procede attraverso la scoperta della dimensione idillica del paesaggio, della bellezza della natura, delle emozioni offerte dalle note emesse dal violino del padre.

Nell’ultimo capitolo lo scrittore utilizza un’anacronia che accorcia l’epoché temporale, facendo tornare il protagonista del romanzo a Pola, «dopo la guerra del ’91, quella tra croati e serbi».25

Il procedere del tempo ha attutito i ricordi dell’infanzia, sottoposti anche a un processo di rimozione delle esperienze tragicamente vissute:

Non c’era niente della mia storia nella mia città, tutto cancellato. Nulla, nessuna traccia. Probabilmente mi ero davvero sbagliato: non sono mai nato a Pola, quella casa in via Smareglia non è mai stata la mia casa, forse neppure ho avuto una madre… forse noi istriani, fiumani, dalmati, non siamo mai esistiti.26

Eppure anche la letteratura, con la sua parola cristallizzata, condensata nella scrittura e sempre pronta a rinnovare emozioni e sentimenti nell’atto di lettura, può aiutare a non far sprofondare nella foiba dell’oblio il dramma della diaspora giuliano-dalmata:

Invece non è affatto così, invece proprio tutto quello che ci è successo – aveva ragione don Egidio – devo ricordarlo, ho il dovere di non dimenticare. Noi, vittime di un genocidio, non per la nostra fede religiosa, ma perché eravamo semplicemente italiani.27

L’altro testo in cui Zecchi affronta ancora il tema dell’esodo, Maria. Una storia italiana d’altri tempi è invece una sorta di biografia romanzata di Maria Pasquinelli, figura controversa a cui sono stati dedicati altri lavori d’impronta storiografica.

In un linguaggio semplice lo scrittore attualizza il rapporto con il lettore usando il presente storico nel raccontare la vita avventurosa di una donna che per partecipare alle operazioni in prima linea in Libia si traveste da soldato in divisa e che uccide il 10 febbraio del 1947 il comandante della guarnigione britannica di Pola Robin William Michael De Winton, come atto di ribellione contro i potenti vincitori della guerra che, come ha lasciato scritto nella lettera-testamento che aveva con sé durante l’attentato, «hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d’Italia».28

Alla biografia della donna seguono l’interrogatorio dell’imputata e la requisitoria del difensore.

La motivazione di fondo del gesto di Maria Pasquinelli sarebbe stata la difesa dell’identità italiana, un argomento che corre facilmente il rischio di strumentalizzazioni politiche e ideologiche.

La destra ha fatto della Pasquinelli una eroina della libertà e della patria, e la colloca tra i caduti per l’ideale fascista e nazionalista.

Su altro versante uno studioso come Giuseppe Casarrubea, autore di saggi storici sui servizi segreti di vari paesi e sull’intreccio fascismo-mafia in Italia, in un blog del 5 ottobre 2009, su Maria Pasquinelli scrive:

È stata definita in mille modi. Ne hanno fatto un idolo. L’hanno confusa con il simbolo dell’Italia ‘mutilata’ dal trattato di pace di Parigi. È ancora oggi richiamata in molti siti web di ispirazione neofascista e neonazista. È “la maestrina d’italiano”, il “coraggio” personificato, il “fiore nato da un pantano”, il simbolo della destra per il sociale e di tutti i veri fascisti vecchi e nuovi che non vogliono morire. Ma a leggere i documenti della storia che, grazie a Dio, ci indicano le strade della verità e dei fatti umani, il giudizio che ne possiamo trarre è che Maria Pasquinelli fu tutt’altra cosa che un’eroina. Coperta da apparati che resistevano e si riorganizzavano nel nome della lotta cosiddetta antibolscevica, fu in realtà una donna che si prestò semplicemente a realizzare una missione omicida che le consentirono di fare.29

E commenta tutta una serie di documenti desecretati dai servizi di spionaggio inglese e americano da cui risulterebbe che Maria Pasquinelli non fu altro che una pedina, forse nemmeno tanto inconsapevole, di un gioco sulla scacchiera delle diverse mire dei paesi vincitori e delle speranze dell’Italia ufficialmente sconfitta, ma che aveva contribuito, con la Resistenza, alla caduta del nazifascismo:

Sembrava una storia consegnata per sempre alla memoria un po’ sbiadita di quegli anni in bianco e nero. Ma ora nuovi particolari emergono dagli scaffali del Public Record Office di Kew Gardens, gli Archivi Nazionali britannici. Decine di documenti del War Office, ritrovati nell’agosto 2009, ci dicono che sarebbe stato possibile evitare quel clamoroso omicidio. Come dimostrano i telegrammi, le lettere e i rapporti redatti dalle autorità militari angloamericane nelle ore e nei giorni immediatamente successivi all’attentato, carte secret e top secret custodite nel fascicolo War Office 204/12896 (Shooting of Brigadier De Winton”).30

Da una parte un gesto estremo come dare la morte a una persona è considerato un atto di eroismo, dall’altra un inutile omicidio politico.

Ancora le drammatiche, benjaminiane, contraddizioni della storia.

 

 

 

1 Stefano Zecchi, Quando ci batteva forte il cuore, Mondadori, Milano 20112, p. 67.

2 Vedi Arrigo Petacco, L’esodo. La tragedia negata degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, Mondadori, Milano 1999.

3 Vedi Ambrose Bierce, Dizionario del diavolo, trad. di Giancarlo Buzzi, Dalai, Milano 2012.

4 Vedi Ernst-Wolfgang Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di Geminello Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2007.

5 Stefano Zecchi, op. cit., p. 125.

6 Ivi, pp. 75-76.

7 Ivi, p. 53.

8 Ivi, p. 58.

9 Ivi, p. 149.

10 Ivi, p. 208.

11 Ivi, p. 209.

12 Ivi, p. 209.

13 Ivi, p. 7.

14 Ivi, p. 215.

15 Ivi, pp. 8-9.

16 Ivi, p. 170.

17 Ivi, p. 35.

18 Ibidem.

19 Ivi, p. 15.

20 Ivi, p. 142.

21 Ivi, p. 149.

22 Ivi, p. 179.

23 Ivi, p. 201.

24 Ivi, p. 209.

25 Ivi, p. 213.

26 Ivi, p. 214.

27 Ibidem.

28 Vedi Stefano Zecchi, Maria. Una storia italiana d’altri tempi, Vertigo, Roma 2011, p. 36.

29 Vedi Blog di Giuseppe Casarrubea, Le iene del neofascismo, 05/10/2009.

30 Ibidem.

 

 

 

Alfredo Luzi è stato ordinario di Letteratura Italiana Contemporanea nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata. Ha insegnato Sociologia della letteratura, Storia della lingua italiana, Letterature Comparate. È stato visiting professor presso le Università di Liegi, Amsterdam, Montréal, Smith College, Nancy, York, Melbourne, Strasburgo, Yale, Aix en Provence, Clermont-Ferrand, ENS di Lione, Spalato, Bordeaux. Attualmente è Direttore del Laboratorio di Letteratura Italiana Contemporanea presso la Scuola di Lingua e Cultura Italiana “Campus L’infinito” di Recanati. Specialista di sociologia della letteratura, di poesia italiana contemporanea e di letteratura regionale e dell’emigrazione, ha pubblicato volumi su Mario Luzi, su Vittorio Sereni, su Ugo Betti, su Giacomo Leopardi, su Libero Bigiaretti, su Scipio Slataper, e numerosi saggi su autori e temi di critica letteraria e di letteratura italiana dell’Ottocento e del Novecento. Fa parte di numerose redazioni di riviste italiane e straniere: Rivista di letteratura italiana, Ermeneutica letteraria, Smerialliana, L’anello che non tiene, Yale Italian Poetry, Forum Italicum, Annali d’Italianistica.

Pubblicazioni recenti: Alfredo Luzi (a cura di), Plinio Acquabona, E, nude, leggerò altre scritture, (Antologia e saggio critico di Alfredo Luzi), The Writer, Milano, 2014; Alfredo Luzi, “Dai ‘frammenti’ ai ‘fondamenti’. Il viaggio verso la metafisica nella poesia di Mario Luzi”, in Rivista di Letteratura Italiana, 2014, XXXII, 3.


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