Michele Cecchini
Per il bene che ti voglio
Erasmo Edizioni, 2015, pp. 360, € 16,00
Non era più il momento di forti emigrazioni quello degli anni venti del secolo scorso, conseguenza anche della politica del governo. Ma dalla Garfagnana, la parte più povera della Toscana, la gente continuava a partire, attratta dal sogno di realizzare un po’ di fortuna oltre oceano.
Antonio Bevilacqua, il protagonista di questo romanzo, non parte spinto dal bisogno, ha di che vivere nel suo paese, ma ha talento, e per questo vuole sfondare come artista di teatro sui palcoscenici che contano. Cecchini ne segue le sorti, in un romanzo testimonianza che raccoglie la voce e il vario destino dei nostri migranti, con un’opera pregevole di ricerca storica e di ricostruzione ambientale. Lo sfondo è San Francisco, colta in un brulicare di persone, di colori, di umori, di odori e voci, sempre sveglia, multietnica e vitale.
Con Antonio Bevilacqua non si toccano gli aspetti più degradanti e umilianti del vivere in esilio, perché lui non fa la fame, ma si coglie il problema esistenziale di chi è sradicato dalla propria cultura, affascinato e quasi stordito davanti a ritmi, abitudini, esigenze prima sconosciute, incapace di abbracciare e fare propria quella cultura, di sposare interamente quella società e quella lingua.
Questa divisione interiore di chi è rimasto col cuore nella propria terra e con la ragione si sforza di mettere radici nella nuova, sembra riflettersi nella lingua adottata dagli emigranti, che Cecchini rende con straordinaria abilità. A cominciare dall’arrivo a Ellis Island, divenuta ailanda, ad esprimere il dispiacere -I am sorry- divenuto ammisorri, ad esprimere il distacco -I don’t mind- che suona annomaindi, a esprimere la non conoscenza -I don’t know- semplificato in aranò e la conoscenza in arayes.
Le sorprese linguistiche, “che gli studi di settore hanno definito italiese” ci accompagnano per tutto il romanzo, e se possiamo trovare aiuto in un piccolo vocabolario italiese - italiano, ci si lascia volentieri trascinare a poco a poco dal ritmo e dalla sonorità, senza indagare sul significato che adeguiamo al contesto.
La storia di Antonio Bevilacqua, divenuto Tony Drinkwater, è la storia di chi è ha fatto il suo piccolo cammino, ha conosciuto e frequentato anche Ferlinghetti, ha fatto la controfigura a Chaplin, ma non ha ottenuto quella gloria che cercava e che doveva imporlo ad un pubblico più vasto. Altri, comunque, ce l’hanno fatta, ma nel settore imprenditoriale, non in quello artistico, e magari non se ne erano visti nemmeno i presupposti.
Il periodo storico preso in considerazione passa attraverso la crisi del ’29, e la mafia compare in tutta la sua forza capace di influire pesantemente sulla economia americana. Chi voleva lavorare doveva vedersela spesso con il potere mafioso e non è escluso nemmeno Tony Drinkwater.
Il suo ritorno in Garfagnana dopo venti anni di America, non è per una visita ai parenti e amici, non per mostrare loro quello che è diventato e poi ripartire, ma è un ritorno per rimanere. In questi casi sei uno sconfitto e ciò che racconti del grande paese oltre oceano suona esagerato agli orecchi di chi ti ha visto tornare. Allora diventi un estraneo anche a casa tua, ti aspetta la solitudine, sei un senzapatria: “Erano tornati, quindi voleva dire che avevano fallito. E allo stesso tempo il fatto di essersene andati chissà dove, li aveva resi ormai altro da noi, per forza di cose diversi. Per essere dei nostri, meglio sarebbe stato per loro non partire. Ora erano mostri. Mostri d’ameri’ani.”
Conclusione che assume un valore molto più esteso di quello della storia narrata, in un periodo come quello che viviamo, di guerre, di fame, di violenza, di sbarchi, di morti in mare e per terra. Di politiche incerte, paurose, aggressive, di rischi globali. E se le migrazioni dolorose attuali ci portano a pensare alla nostra storia di emigranti, non possiamo negare che oggi lo scenario è diventato molto più inquietante.
Marisa Cecchetti