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Chiara Accogli. Dia­lo­ghi oltre confine: espe­rien­ze teatrali e cine­ma­to­gra­fi­che 
L'intercultura fra teatro comunitario e cinema dell'empatia: percorsi geo-pedagogici della diversità e dell'inclusione
(www.compagniadellafortezza.org)
(www.compagniadellafortezza.org) 
31 Maggio 2015
 

Tra i possibili campi in cui promuovere la pratica dell'intercultura s'inserisce un certo tipo di cinema e di teatro, sorto alla fine del secolo scorso, tra Argentina, Francia e Italia, con l'obbiettivo di promuovere la diversità e l'inclusione sociale.

Se, come afferma Nicoletta Varani (2014), «l'approccio interculturale è attento alle differenze e alla relazione con l'altro» e l'intercultura è «l'incontro e la crescita insieme», il teatro comunitario e il cinema dell'empatia rappresentano strumenti e veicoli significativi nella prospettiva del dialogo e dell'integrazione.

Come suggerisce Raúl Crisafio (2014) nella tradizione teatrale in Argentina, «il teatro è vissuto come luogo di incontro e di scambio interculturale», dove si lavora con e a partire da storie, «per equilibrare gli scambi tra soggetti centrali e soggetti periferici».

 

Punto di partenza e trait d'union della mappa dove tracciare alcune esperienze artistiche volte all'educazione interculturale, base fondante di un “teatro come ponte per la comunità” (Malini, Repossi, 2011) e del “cinema dell'empatia” (Scarponi, 2008), è la “passione dell'incontro”: «la parola passione evoca quel patire che urge in tutti gli incontri veri, che per essere tali sono al/sul limite: la fatica, la difficoltà, a volte la sofferenza. Nel contempo il termine passione nomina quell'energia positiva, quasi un'energia amorosa che ci spinge verso qualcun altro, nel bisogno e nel desiderio di incontrare. Dunque non è solo il patire l'inevitabile problematicità degli incontri tra essere umani con le loro differenze, ma anche la forza desiderante e il piacere che ne sono i moventi e l'alimento» (Perina, 2007, p. 14). Detto altrimenti, «solo incontrandomi con gli altri posso dare un senso alla rotta, incontrare la mia identità» (Barba, 1993, p. 120).

Un approccio prima di tutto alla vita che vede nell'incontro con l'altro la sua primordiale energia, una natura eminentemente sociale dell'uomo, la più stretta radice etimologica del termine comunicazione: cum-munis, essere insieme in quanto destinatari di un dono (Sparti, 2007, p. 216).

«Negli approcci del teatro cosiddetto sociale ho trovato una buona sintesi, un buon campo d'indagine per questo mio desiderio il quale non è, come potrebbe apparire ad un primo sguardo, “per” il teatro, ma “con” il teatro. [...] Delbono non agisce in funzione di pratiche riabilitative o terapeutiche, anzi ne ha un netto rifiuto, bensì opera con l'intento di riscoprire “zone di luci diverse”» (Perina, 2007, pp. 20-23).

Il Teatro degli oppressi opera sull'importanza della coscienza politica e la possibilità d'emancipazione in termini di libertà e scelta; «ogni teatro è pedagogia» sosteneva Copeau nel suo manifesto politico-culturale, ma non prima di averci raccontato che questo può avvenire «dove ci sono delle ferite, dei vuoti, delle differenze, ossia nella società frantumata, dispersa, dove la gente è priva di ideologie e valori» e, aggiunge, «dove gli individui riconoscono di avere dei bisogni» (Perina, 2007, p. 35).

Il rapporto tra teatro sociale ed educazione interculturale è stretto, e si manifesta quando c'è attenzione per questioni che sfuggono a letture troppo predefinite, quando c'è la necessità di unione tra soggetto e la sua esperienza.

Sono le fitte maglie del quotidiano a ispirare le narrazioni del teatro sociale: anche di fronte a una precisa scelta drammaturgica c'è la possibilità di alimentare la nostra esperienza personale e sottrarre alle interpretazioni scientifiche vicende di vita ricche ed irriducibili, talvolta scomode.

La scommessa del teatro sociale, quindi, è creativa e politica e si pone in modo critico verso due tipi di immaginazione: una incarnata da uomini e donne che credono di essere perdenti; l'altra presente nella cultura delle organizzazioni e istituzioni che di questi uomini e donne si occupano ma ricollocando la loro storia in una posizione di debolezza.

«Per il teatro sociale non è l'individuo a essere malato, ma è la società quella che sta male e fa star male; è un teatro che non può rinunciare all'aggettivo sociale perché sa che il teatro nasce e si sviluppa nel e con il sociale. La parola societas significa che il fondamento della società è il socio, e chi si associa chiede: “come possiamo risolvere i nostri problemi”?. La salvezza individuale è la grande illusione di oggi (Bernardi, 2007, pp. 76-79)».

 

«In un giorno di venticinque anni fa Armando Punzo entrò volontariamente nel carcere di Volterra e non ne usci più. Varcava il portone chiodato della fortezza medicea adibita a prigione e non immaginava che stava per dar vita a un'esperienza senza precedenti in Europa. Una cosa sola sapeva: che avrebbe portato in carcere il teatro e che quel teatro sarebbe stato realizzato da rapinatori e assassini» (Guerrieri, 2012, p. 31).

Punzo non era, né voleva diventare un assistente sociale. Punzo era un uomo di cultura che si era fatto rubare i sensi da Artaud e Brecht. Non gli interessava il recupero sociale del carcerato, ma era mosso da un sogno infinitamente più folle: abolire le sbarre, far esplodere, metaforicamente, la struttura carceraria e indurre i suoi inquilini a volarsene via sul filo dell'immaginazione e della poesia. La sua avventura cominciò nel 1989, quando con i carcerati di Volterra realizzò La gatta Cenerentola di Roberto De Simone. Con quello spettacolo La Compagnia della fortezza, ricevette un'identità ed ebbe un battesimo. Da allora, Punzo e la sua mutevole troupe hanno offerto un titolo all'anno. Da allora, il “teatro delinquenziale”, da lui vagheggiato non è stato soltanto una realtà, ma ha acquistato una fama che ha finito col superare i confini nazionali, ha strappato a Carmelo Bene, a Luca Ronconi e a tanti principi della scena i premi più prestigiosi, diventando persino un modello.

Accedere a uno spettacolo della Compagnia della Fortezza non ha niente in comune con il rito dell'andare a teatro. Gli spettacoli avvengono nel cortile del carcere, lo spettatore deve lasciare all'ingresso cellulare e carta d'identità, come se fosse obbligato a spogliarsi di ciò che lo connota, così come gli attori si sono liberati dalla realtà che li rinchiude per potersi trasfigurare in un ruolo che somiglia a quello dei Comici dell'Arte: fissato il canovaccio e distribuite le parti, vanno incontro a ogni genere di avventura creativa, imprevisti e battute che Punzo gli butta tra i piedi non come inciampo ma per sollecitare la loro reazione inventiva. Dura un anno la preparazione di uno spettacolo, e si svolge sempre nello stesso luogo: una stanza di dieci metri per tre, il teatro più piccolo del mondo.

In questo mondo sono nati spettacoli come Masaniello di Antonio Porta e Armando Pugliese (1990), Marat-Sade di Weiss (1993), i Negri di Genet (1996), Orlando furioso (1998), Macbeth (2000), Amleto (2011), L'opera da tre soldi (2002). Tutti spettacoli inventivi, fisici, violentemente espressivi, che hanno proiettato la Compagnia in una sorta di empireo teatrale che, a un certo punto, reclamava davvero di infrangere le sbarre fisicamente. Così, con grave preoccupazione dei carcerieri, sono cominciate le tournée nei teatri tradizionali; così, con ulteriore e più grave preoccupazione dei cosiddetti organi competenti, si è fatto strada il sogno di creare il primo Teatro Stabile in Carcere.

Ecco allora il teatro come rito collettivo, quel teatro per tutti, quel teatro come condivisione dell'esistenza, come vita-trasformazione-comunità, che nasce da un intento sociale, animare la situazione dei detenuti del carcere di Volterra, che lavora sulla corporeità, su quei corpi “presenti” e messi “in esposizione”; quel teatro, solo quel teatro, che ci permette di passare dalla condizione più difficile, immutabile, dell'individuo carcerato, all'espressione artistica più elevata.

 

«Oggi, in Italia, spesso il teatro è il cinema che ci manca. E lo è per molti motivi: perché nasce da un desiderio di sperimentare tecniche e linguaggi che il nostro cinema, sempre più televisivo, ha completamente perduto; perché nasce dai margini, da esperienze radicate in un vissuto personale spesso difficile e attraverso modalità produttive gestite dal basso; perché si confronta con il tragico e con il sublime, con le zone rimosse e oscure degli immaginari mass-mediali contemporanei; perché sa fare tesoro del lavoro di gruppo e spesso si configura come laboratorio prima che come creazione; perché affronta tematiche pesanti come la persistenza del male, la violenza, l'emarginazione, il disagio psichico e il degrado sociale, senza piagnistei o neorealismi di riporto, e anzi con opere vitalissime, piene di energia e di invenzioni registiche, scenografiche, recitative; e perché con queste invenzioni sa darci un vero piacere estetico (Buccheri, Morreale, 2007, pp. 9-10)».

Se il teatro italiano è il cinema che sogniamo è perché è un teatro che nasce dal reale, senza però fermarsi alla documentazione o alla testimonianza. Esempi di cinema “concreto”, inteso nella sua radice etimologica, cum-crescere, ciò che cresce insieme, «ciò che fa crescere insieme lo spettacolo e lo spettatore, l'immagine e la parola» (Bodei, 2007, p. 178), quel cinema che potrebbe essere considerato come la più grande incorporazione di conoscenze che l'uomo abbia mai inventato, «altro che biblioteca di Babele: l'archivio dell'Esistenza» (Casetti, 2007, p. 182), sono i lavori di Pippo Delbono e Nicolas Philibert.

Il cinema di Delbono – Guerra, Grido, Amore Carne – altro non è che un prolungamento dell'esperienza teatrale; il regista non fa film per fare cinema, ma per dire altrimenti quello che esprime nei suoi lavori teatrali, portando sui palcoscenici e sugli schermi più importanti d'Europa chi non sarebbe mai apparso. Persone ai margini, barboni come titola uno dei suoi spettacoli più noti. Lui, regista-drammaturgo-attore, sta in scena con loro, li conduce, li guida con attenzione, con divertita e sofferta complicità, con paterno ma non pietistico affetto. Delbono, come Punzo, non cura, non è uno che tenta di sanare le ferite attraverso il lavoro teatrale. Piuttosto le mostra, le urla e le libera, le ostenta, e talvolta sa anche sorriderne. Il dolore, l'emancipazione, l'handicap sono la materia su cui lavora, la creta che lui modella per creare il suo teatro. I suoi spettacoli non risolvono e non pacificano, parlano di contraddizioni, sono contraddittori: sporchi e candidi, violenti e poetici, farraginosi e limpidi. Perché si crei un alto livello di empatia con lo spettatore è necessario che nella strutturazione delle opere di Delbono l'immaginario dell'attore confluisca nel mondo del regista, aprendo un dialogo tra arte e vita, tra attore e spettatore, tra scena e platea, chiamando direttamente in causa il pubblico. «Ciò che si vuole creare è un dialogo alla pari, un rapporto interpersonale, segnato dalla necessità e mediato esclusivamente dai corpi: di chi agisce e di chi contempla, senza alcuna posa intellettuale» (Fiaschini, 2011, p. 110). Come in una televisione al contrario, i suoi spettacoli riescono a “intrattenere” rovesciando le prospettive della visione tradizionale, scardinando i fondamenti, grazie alla verità delle emozioni e delle azioni presentate. Un vitalità che ci coglie di sorpresa ma che riesce quasi sempre a coinvolgerci nel rito dell'incontro.

 

Spostandoci in campo prettamente cinematografico, dal filone del cinema diretto, troviamo il “cinema dell'empatia” di Nicolas Philibert. Anche per il regista francese, i suoi progetti si costruiscono in relazione con coloro che filma: «Per me non si tratta di fare un discorso su, non cerco di documentarmi, parto da una mancanza di sapere, da un desiderio di incontro. Alla parola “soggetto” preferisco la parola “progetto”. Perché un progetto è la promessa di qualcosa, contiene un divenire, un cammino da fare» (Barisone, Chatrian, 2003, p. 34). Un approccio all'arte e alla vita costante in ogni suo lavoro, da Essere e Avere (2002), a Nel Paese dei Sordi (1992), a La più piccola delle cose (1997). In quest'ultima pellicola l'autore segue la vita degli ospiti della casa di cura La Borde che, come ogni estate, preparano uno spettacolo teatrale.

All'unisono con Punzo e Delbono, Philibert conferma che «curare è fare in modo che ognuno possa avere un ruolo all'interno della collettività, preservando la particolarità di ciascuno» (Barisone, Chatrian, 2003, p. 42).

 

Dialoghi oltre confine: dall'Argentina all'Italia, passando per la Francia; dal teatro sociale e comunitario al cinema dell'empatia; sono solo alcune pratiche dell'intercultura segnate nella mappa della diversità e dell'inclusione sociale, dove i “non-luoghi” dell'Altro e dell'Altrove, in un discorso geo-pedagogico, possono trovare una maggiore giustizia sociale.

 

Chiara Accogli

 

 

 

Riferimenti bibliografici

Andreoli V., Il teatro dei matti, in Corriere della Sera, 15 aprile 2013, p. 11.

Barba E., La canoa di carta, Il Mulino, Bologna 1993.

Barisone L., Chatrian C., Nicolas Philibert. I film, il cinema, Effattà, Torino 2003.

Bernardi C. in Perina R. (a cura di), Teatro al limite. La passione dell'incontro e la mediazione socioeducativa, QuiEdit, Verona 2007.

Bodei R., Pensare il Novecento: cinema e filosofia, in Buccheri V., Morreale E., Mosso L., Pezzotta A. (a cura di), Brancaleone... cit.

Casetti F., Pensare il Novecento: cinema e filosofia, in Buccheri V., Morreale E., Mosso L., Pezzotta A. (a cura di), Brancaleone... cit.

Comolli J.L., Vedere e potere, Donzelli, Roma 2006.

Fiaschini F., Una danza sull'orlo della vita in Visioni incrociate, Titivillus Mostre Editoria, Pisa 2011.

Guerrieri O., Punzo, in carcere il teatro significa libertà, in La Stampa, 13 luglio 2012, p. 31.

Innocenti Malini G., Repossi A. (a cura di), Il teatro come ponte per la comunità in Errepiesse, Anno V, N. 3, Dicembre 2011.

Perina R. (a cura di), Teatro al limite. La passione dell'incontro e la mediazione socioeducativa, QuiEdit, Verona 2007.

Punzo A., È ai vinti che va il suo amore, Clichy, Firenze 2013.

Scarponi D., Nicolas Philibert. Il Cinema dell'empatia, Selene, Milano 2008.

Sparti D., Musica in nero. Il campo discorsivo del jazz, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

Varani N., Crisafio R. in Geografia Interculturale. Spazi, luoghi e non luoghi, a cura di Nicoletta Varani, Federico De Boni, McGraw-Hill Education Create, Milano 2014.

 

Videografia

Amore Carne, 75', colore, di P. Delbono, IT, 2011.

Essere e Avere, [Etre et avoir], 104' colore, di N. Philibert, FR, 2002.

Grido, 75', colore, di P. Delbono, IT, 2006.

Guerra, 61', colore, di P. Delbono, IT, 2003.

La più piccola delle cose, [Le Moindre des choses], 105' colore, di N. Philibert, FR, 1997.

Nel paese dei sordi, [Le pays des sourds], 99' di N. Philibert, FR, 1992.

 

Teatrografia

Amleto, di A. Punzo, Compagnia della Fortezza, 2001.

Hamlice. Saggio sulla fine di una civiltà, di A. Punzo, Compagnia della Fortezza, 2010.

I Negri di Genet, di A. Punzo, Compagnia della Fortezza, 1996.

L'opera da tre soldi, di A. Punzo, Compagnia della Fortezza, 2002.

La gatta Cenerentola, di A. Punzo, Compagnia della Fortezza, 1989.

Macbeth (2000), di A. Punzo, Compagnia della Fortezza, 2000.

Marat-Sade, di A. Punzo, Compagnia della Fortezza, 1993.

Masaniello, di A. Punzo, Compagnia della Fortezza, 1990.

Orlando furioso, di A. Punzo, Compagnia della Fortezza, 1998.

 

 

 


Immagine tratta da Hamlice. Saggio sulla fine di una civiltà,

Compagnia della Fortezza, 2010


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